L'evoluzione della vita |
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L'evoluzione ed i mutamenti ambientali Nel considerare le leggi naturali, a partire dalla gravità o dall'elettromagnetismo, viene riconosciuta l'esistenza di qualcosa che ha determinato la validità di quelle leggi e non di altre diverse. La complessità stessa dei fenomeni naturali evoca nella nostra mente l'attività di forze che sembrano dotate di un'intrinseca volontà nel dirigere il corso degli eventi. Nel valutare le dinamiche determinate da tali forze, non possiamo far altro che seguire i processi della nostra attività mentale, la quale cerca di costruire una visione del mondo che possa risultare, in un dato momento storico, la più coerente possibile con le conoscenze acquisite. Questo vale anche per l'evoluzione della vita, che cerchiamo di interpretare mediante un processo induttivo basato sulle informazioni e sui dati offerti dalle varie discipline scientifiche. Nella pagina sull'origine della vita si è visto come i primi organismi unicellulari risalgano ad oltre tre miliardi di anni fa, dunque – per quanto meravigliosa possa apparirci – l’opera creatrice della natura ha richiesto tempi lunghi. La Terra quale noi oggi la conosciamo è un ambiente ben diversificato, la cui superficie brulica di esseri viventi: ogni organismo è come un microcosmo, nell’ambito del quale si svolgono con precisione complessi processi di trasformazione. Ma la lunghezza dei tempi richiesti per l’evoluzione degli esseri viventi non deve ingannare, inducendoci a pensare che si tratti di un processo automatico in costante ed uniforme progressione. Nel mondo fisico la materia inanimata e la vita sembrano regolate da leggi diverse che, pur non essendo in contrasto, non sono neanche in completa armonia tra loro. Spesso infatti le condizioni dell’ambiente fisico si modificano in modo da minacciare o distruggere le forme di vita presenti, e nello stesso tempo nuova vita si manifesta e si sviluppa laddove l’ambiente presenta condizioni favorevoli. Gli organismi viventi si sono evoluti in modo da poter reagire intenzionalmente alle condizioni ambientali, e non solo subirle passivamente. Vi sono eventi fisici, come un’eruzione vulcanica, un terremoto, la caduta di un meteorite, che modificano le condizioni ambientali in tempi brevi ed in modo traumatico, distruggendo gran parte delle forme di vita presenti in una certa area. Ma quando l’ambiente si modifica con sufficiente lentezza, gli esseri viventi possono attivare le loro risorse, o metterne a punto delle nuove, per adattarsi ai mutamenti. L’aspetto più evidente di questa capacità è costituito dal movimento, mediante il quale molti organismi cercano di passare da una situazione ambientale svantaggiosa ad una più vantaggiosa. Ma anche le forme viventi non dotate di movimento, come la maggior parte dei vegetali, dispongono di risorse adatte a reagire ai mutamenti ambientali. Meccanicismo e programmi evolutivi Il processo che ha portato all'origine della vita, fino alla formazione dei primi organismi unicellulari, può essere interpretato alla luce della teoria riduzionista come interazione tra le variazioni ambientali che si sono verificate sulla Terra col trascorrere del tempo ed il progressivo trasferimento di informazione sempre più complessa all'interno di determinate forme individuali, senza alcun intervento da parte di entità esterne al processo stesso. Affinché quest'ipotesi possa reggere, si deve riconoscere che tutta l'informazione necessaria doveva essere già presente all'interno del sistema Terra allo stato potenziale: il trascorrere del tempo diventa la condizione che rende possibile, mediante le traformazioni ambientali, il trasferimento dell'informazione all'interno degli organismi. Pur con queste premesse, il processo ipotizzato dalla teoria riduzionista implica un elevato livello di automatismo, dato che tutte le trasformazioni dovrebbero svolgersi nell'ambito delle sole leggi della fisica e della chimica valide per il mondo inorganico. Nell'evoluzione dalle forme di vita unicellulari a quelle pluricellulari si assiste però alla comparsa di una nuova funzione che mette in crisi l'interpretazione riduzionista. Già nell'ambito degli organismi unicellulari più evoluti è possibile osservare una serie di trasformazioni e di movimenti nell'ambiente acquatico in cui gli stessi vivono, movimenti che possono essere finalizzati ad uno scopo, come ad esempio alimentarsi o sfuggire ad un pericolo (cioè ad una condizione ambientale che mette a rischio il buon funzionamento o l'integrità dell'organismo stesso). Per coerenza, una teoria rigidamente riduzionista dovrebbe estendere l'automatismo delle interazioni tra organismo ed ambiente anche anche a queste forme di comportamento: la complessità dell'informazione acquisita farebbe sì che quelli che noi ingenuamente interpretiamo come movimenti finalizzati non siano altro che una conseguenza delle leggi fisiche e delle reazioni chimiche che intervengono all'interno dell'organismo e tra l'organismo e l'ambiente. Non solo queste forme rudimentali di comportamento, ma anche la riproduzione degli organismi unicellulari primitivi implica l'esecuzione di quelli che oggi possiamo definire come veri e propri programmi, contenuti all'interno degli organismi stessi. Le condizioni ambientali esterne (oppure quelle interne) attivano l'esecuzione di un determinato programma, ma tutte le istruzioni del programma stesso devono essere già presenti nell'organismo. Nel caso della riproduzione le condizioni esterne sono quasi irrilevanti, nel senso che è sufficiente che non impediscano il processo, mentre per l'attivazione del programma sono importanti le condizioni interne, come il livello di accrescimento della cellula. In ogni caso vi è un enorme salto di qualità, che rende inaccettabile una teoria riduzionista in senso stretto, tra un sistema basato semplicemente su una serie di interazioni fisico-chimiche tra un ambiente esterno ed un ambiente interno ad una determinata struttura, ed un sistema che prevede il trasferimento di istruzioni programmate ad elevato contenuto di informazione all'interno della struttura stessa. Si può solo riconoscere, eventualmente, la possibilità che l'intelligenza necessaria al trasferimento di informazione programmata (di livello sempre più elevato) all'interno degli organismi, sia determinata dal sistema nel suo complesso, regolato dalle leggi della fisica e della chimica ad esso collegate. A questo punto diventa quasi irrilevante la questione se questa forma di intelligenza programmatrice sia da attribuire ad entità esterne al sistema o sia associata al sistema: è lo stesso esplicarsi degli effetti della programmazione, nel loro sviluppo evolutivo, che implica una forma di intelligenza. L'organizzazione della vita non può essere spiegata nei soli termini di materia ed energia, ma richiede anche il trasferimento di un'informazione programmata che deve necessariamente avere una sorgente. L'intelligenza come fondamento della programmazione Oggi disponiamo di strumenti informatici come i computer che ci danno un'idea sufficientemente adeguata su come funziona un programma, distinguendo anzitutto tra hardware e software: sebbene l'hardware sia indispensabile al funzionamento del software, è solo quest'ultimo che contiene le istruzioni programmate che ci permettono di ottenere ciò di cui abbiamo bisogno. Ma ogni programma funziona solo se vi è stata una forma di intelligenza che ha definito ed ordinato le istruzioni che poi dovranno essere eseguite dalla macchina. Inoltre, così come accade per l'evoluzione della vita, anche i programmi per i computer si evolvono, nel senso che programmi via via più complessi sono in grado di operare integrando al loro interno programmi di livello più semplice, che però svolgono funzioni indispensabili al funzionamento dei programmi complessi. Così, in poco più di sessant'anni, nel campo dell'informatica si è passati dall'abc della programmazione a linguaggi sempre più evoluti, in grado di far eseguire ai computer operazioni di notevole complessità, creando effetti affascinanti, come avviene ad esempio nei più evoluti videogames. Anche in questo caso, chi avrebbe potuto immaginare un simile sviluppo solo un secolo fa? Colonie e società cellulari Tornando al processo evolutivo della vita, circa 700 milioni di anni fa alcuni organismi unicellulari cominciarono ad aggregarsi in colonie ed a stabilire mutue relazioni, fino a diventare interdipendenti. Le colonie si trasformarono così in individui pluricellulari nei quali le cellule presero la via della differenziazione e della specializzazione, rinunciando alla possibilità di vivere isolatamente. Considerato che sulla Terra ci sono tuttora una miriade di organismi unicellulari, la cui vita è complessa (si muovono, reagiscono all’ambiente, si riproducono, si alimentano ed espellono rifiuti), ci domandiamo per quale ragione alcuni di essi avrebbero avuto l'esigenza di aggregarsi stabilmente, se erano in grado di sopravvivere autonomamente? E perché mai si sarebbero poi differenziati all'interno della colonia, fino a perdere ogni possibilità di esistenza individuale autonoma? La formazione delle colonie pluricellulari e la successiva differenziazione delle cellule al loro interno, con la comparsa dei primi rudimentali sistemi neurali, evidenziano lo sviluppo di nuovi elementi di interazione e di programmazione: è come se alcuni organismi unicellulari decidessero di aggregarsi, pur potendo continuare ad esistere come organismi autonomi. Può darsi che ad un certo punto una mutazione del codice genetico abbia impedito alle cellule figlie di un organismo unicellulare di separarsi completamente per condurre una vita autonoma indipendente, costringendole, per così dire, a vivere in colonia. Resta però da capire come mai queste colonie non abbiano poi continuato ad incrementarsi in modo caotico, ma abbiano cominciato a trasformarsi a loro volta in individui pluricellulari organizzati. La teoria classica dell'evoluzione L'interpretazione dell'evoluzione della vita che ha prevalso negli ultimi decenni si fondava sulle variazioni casuali del genoma (codice genetico), chiamate mutazioni: si tratta di errori che intervengono nel processo di copiatura durante la replicazione del genoma. Il processo di replicazione è molto preciso: è stato calcolato che le probabilità statistiche di errore siano all'incirca di uno ogni miliardo di nucleotidi replicati. Tenendo conto che il genoma umano è composto di circa tre miliardi di nucleotidi, questo significa che ad ogni replicazione corrispondono più o meno tre errori, cioè tre nucleotidi vengono sostituiti da altri. Com'è noto, i nucleotidi presenti nel DNA sono quattro, e vengono indicati con le lettere A (adenina), C (citosina), G (guanina) e T (timina), dunque l'errore consiste nella sostituzione del nucleotide corretto con uno degli altri tre. Il compito principale dei nucleotidi è quello di codificare, a gruppi di tre (triplette), l'assemblaggio dei 20 aminoacidi con cui si formano le lunghe catene delle macromolecole proteiche. Per maggiori dettagli su questo processo si rimanda ai testi specialistici o ai siti che descrivono il funzionamento del genoma. Qui basta ricordare che alcune triplette sono ridondanti (cioè codificano per lo stesso aminoacido), che le istruzioni del genoma sono in parte sovrabbondanti, e che una buona parte del genoma sembra avere funzioni di controllo (sequenze regolatrici), oppure non codifica nessun assemblaggio: dunque nella maggior parte dei casi gli errori di replicazione non comportano conseguenze degne di nota. In qualche caso però le conseguenze ci sono, ed hanno quasi sempre effetti deleteri per l'organismo nelle cui cellule si è verificato l'errore. La teoria classica dell'evoluzione dice semplicemente che quando una mutazione produce qualcosa di nuovo che determina una vantaggio nella competizione per la sopravvivenza e per la riproduzione di un individuo, essa si trasmette alla progenie in accordo con le leggi dell'ereditarietà: di conseguenza anche la progenie acquisisce quel vantaggio, si riproduce più agevolmente, ed in tempi relativamente brevi su scala evolutiva la specie mutata ha il sopravvento rispetto agli individui privi della mutazione. È opportuno, a questo punto, sottolineare come in biologia sia sempre in agguato una tendenza della psiche umana a spiegare processi complessi ed in gran parte ancora sconosciuti con semplici ed eleganti teorie meccanicistiche, elaborate sul modello di quelle proposte nell'ambito della fisica classica. Ma, a parte il fatto che la fisica classica è stata superata già da più di un secolo e di conseguenza anche in quell'ambito le teorie semplici ed eleganti non sono più attuali, la biologia è un settore della scienza nel quale la complessità e l'imprevedibilità sono all'ordine del giorno. Dunque è meglio andarci cauti con le teorie evoluzionistiche troppo semplici, che possono pur contenere un nucleo di verità, ma non sono in grado di spiegare la complessità di tutti i fenomeni, soprattutto alla luce dei più recenti risultati della ricerca. Per esempio, un risultato sorprendente è dato dal fatto che nel genoma umano siano presenti solo poco più di 30.000 geni (un valore di poco superiore al numero di geni presenti nel topo), e che per più di tre quarti il DNA umano non codifichi né proteine né RNA. Ecco perché l'attuale ricerca biologica è impegnata nel tentativo di scoprire a cosa serva tutto quel DNA apparentemente superfluo. Il quadro attuale dell'evoluzione naturale Senza addentrarsi oltre nell'affascinante campo di indagine rappresentato dalla biologia informatica, con tutte le sfide che la sua complessità comporta per l'intelligenza umana, è importante mettere in evidenza alcuni aspetti che emergono dal quadro dell'evoluzione naturale. Osservando gli ecosistemi nel loro insieme, prima della comparsa degli esseri umani e dei manufatti da loro creati, si osserva un sostanziale e sorprendente equilibrio nel quale l'energia è utilizzata in modo vantaggioso, e l'incremento di informazione è commisurato alle risorse energetiche disponibili. Ma nell'ambito di questo quadro armonizzato emerge subito l'esigenza di distruggere nel tempo quello che è stato prodotto, per sostituirlo con nuovo materiale. Non solo ogni organismo si trasforma continuamente, sostituendo le sostanze di cui è composto, ma gli stessi individui viventi smettono ad un certo punto di funzionare, trasformandosi in materia organica da riutilizzare per la vita di altri organismi. Sotto questo profilo il processo naturale non mostra il minimo interesse per quello che noi esseri umani definiremmo il destino del singolo individuo: in molte specie animali tanti individui vengono fatti nascere per essere distrutti poco dopo la nascita o in giovane età. Inoltre gli animali di alcune specie si sono specializzati come predatori che per vivere hanno bisogno di distruggere la vita di altri animali. Alla base della catena alimentare del mondo animale stanno comunque le piante, anch'esse organismi viventi. Fatta eccezione per gli stadi evolutivi più semplici, tutti gli animali si nutrono di materia organica prodotta dai vegetali o prelevata da altri animali già morti o uccisi. Solo nelle piante l'evoluzione ha sviluppato programmi che rendono possibile la produzione di sostanze organiche viventi a partire dall'energia e da sostanze inorganiche. Possiamo dunque osservare come la creatività evolutiva delle forze naturali – intendendo come tali quelle che producono l'incremento di informazione necessario allo sviluppo nel tempo della complessità della vita sulla Terra – prescinda da qualsiasi forma di partecipazione che noi esseri umani potremmo definire protettiva (o perfino affettiva) nei confronti dei singoli individui prodotti. Nello stesso tempo va riconosciuto come ogni individuo disponga in misura maggiore o minore, almeno a partire da un certo livello del proprio sviluppo, delle risorse necessarie per potersi mantenere in vita per un tempo più o meno lungo e per riprodursi, risorse che si esplicano sotto forma di intento, di esperienza e di strategie per la sopravvivenza e per l'accoppiamento. Queste risorse sono più evidenti negli animali più evoluti, dotati di un sistema nervoso ben sviluppato, che non nelle piante o negli animali inferiori. Col nostro linguaggio umano ingenuo, rudimentale ed inadeguato, noi facciamo a volte riferimento alle dinamiche in atto nel mondo della natura, ed in particolare nel regno animale, chiamandole legge della jungla o legge del più forte, oppure lotta per la sopravvivenza, definendo più forte l'individuo che prevale nella competizione a spese, direttamente o indirettamente, del soccombente. Ma se è vero che a volte certi ambienti naturali presentano effettivamente i requisiti di un'arena nella quale i contendenti si scontrano direttamente per alimentarsi o per riprodursi, più spesso le cause che determinano il successo o l'insuccesso di un organismo sotto il profilo evolutivo sono molteplici e complesse, e tali da sfuggire al controllo diretto dell'individuo stesso, come avviene ad esempio nel caso delle mutazioni genetiche o delle repentine variazioni ambientali. Un processo creativo privo di coscienza? Un altro aspetto sconcertante, almeno per noi esseri umani, dell'evoluzione della vita interpretata alla luce delle teorie riduzioniste, è il fatto che fino alla comparsa della coscienza umana non viene ipotizzata alcuna forma di coscienza che sia in grado di prendere atto di un processo così complesso e grandioso: per centinaia di milioni di anni la creatività evolutiva avrebbe messo in scena uno spettacolo eccezionale, quale è quello della trasformazione della vita sulla Terra, senza che nulla o nessuno fosse in grado quanto meno di percepire quanto stava accadendo. Si potrebbe obiettare che un testimone c'è sempre stato, ed è rappresentato dalla coscienza più o meno rudimentale o più o meno evoluta delle innumerevoli forme viventi coinvolte in questo straordinario esperimento. Ma, come si vedrà meglio nella sezione sulla psiche, solo gli organismi più evoluti, sviluppatisi negli ultimi 50 milioni di anni, potevano disporre di sistemi nervosi in grado, forse, di sintonizzare forme di coscienza che potessero osservare il mondo andando oltre i più immediati bisogni istintuali, ed anche in questo caso non siamo in grado di dire se queste forme di percezione potessero pervenire ad una visione cosciente della complessa scena del mondo vivente. Il processo evolutivo sarebbe dunque dotato di una creatività del tutto inconscia, almeno fino alla comparsa dei primi rudimenti di coscienza nel mondo animale ed in particolare negli esseri umani. Ma poiché la percezione cosciente dell'evoluzione della vita da parte dell'umanità è limitata ad un periodo che va da circa due secoli fa ad oggi, siamo portati ad interrogarci sull'origine della coscienza umana e sui suoi contenuti, ed in particolare su quel fenomeno così complesso e pieno di contraddizioni che è la psiche umana nella sua evoluzione cronologica. I risultati del metodo scientifico, fondato sulla sperimentazione, sono della massima importanza e non possono essere trascurati, pena il ritorno a tutte quelle forme di ingenua e rischiosa inflazione della psiche mediante le quali la nostra coscienza ha dovuto interpretare il mondo e la vita fin dagli inizi della storia umana. Il sapere scientifico si distingue da qualsiasi forma di fede perché offre gli strumenti per operare concretamente ed efficacemente sulla realtà di questo mondo, modificandola secondo l'intento umano: per esempio, dallo studio della genetica deriva l'ingegneria genetica, che permette di eseguire esperimenti che portano ad un controllo diretto sulla vita stessa. Quali saranno le conseguenze di questo potere lo svelerà il futuro, ma in ogni caso si tratta di un potere effettivo messo a disposizione della volontà umana. Nello stesso tempo, vanno tenuti ben presenti tutti quegli aspetti del processo evolutivo che ancora sfuggono alla comprensione scientifica, ed in particolare quelli che riguardano l'uomo stesso: perché mai un processo inconscio e privo di scopo dovrebbe trasformarsi in esperienza cosciente, intelligente, autoriflessiva ed intenzionale?
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