Le ambiguità sulla sopravvivenza secondo Saltmarsh |
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Harold Francis Saltmarsh Vissuto dal 1881 al 1943, Saltmarsh dedicò buona parte della sua vita alla ricerca psichica e fu una figura di spicco della SPR. Agiato uomo d'affari, si ritirò ancor giovane dalla sua attività a causa delle precarie condizioni di salute, rivolgendo la sua attenzione a studi di argomento filosofico che lo portarono ben presto ad occuparsi della ricerca psichica, alla quale dette importanti contributi. In due suoi scritti (del 1934 e 1938) sui problemi del tempo e delle cause, propose una teoria sulla precognizione che a suo avviso era suffragata da sufficienti prove sperimentali. Sosteneva che il fatto che un essere umano, condizionato dal tempo e dallo spazio, fosse in grado in certe circostanze – per quanto rare ed eccezionali – di acquisire conoscenze su eventi futuri, sollevava problemi della massima importanza, e rappresentava per un ricercatore una delle sfide più enigmatiche e misteriose che si possano affrontare. Saltmarsh scrisse anche tre importanti articoli sul problema filosofico relativo alla sopravvivenza ed all'identità personale dopo la morte. Nel primo, del 1929, descriveva una serie di esperimenti da lui stesso condotti per verificare se i risultati di alcune sedute medianiche potessero essere attribuiti al caso. Un secondo articolo del 1932 trattava dei vari fenomeni concernenti la sopravvivenza già indagati dai ricercatori, per vedere se potesse emergere una prova certa della sopravvivenza, mentre il terzo, del 1938, esaminava e spiegava i risultati delle complesse corrispondenze incrociate relative a contenuti letterari di elevato livello, in termini comprensibili anche da parte di persone prive di particolari competenze nelle lingue antiche (in particolare latino e greco). Saltmarsh divenne membro della SPR nel 1921, ed in seguito fece parte del consiglio direttivo della società, curandone gli affari economici, fino al termine dela sua vita. Un articolo su alcune questioni relative alla sopravvivenza L'articolo intitolato Ambiguità nella questione della sopravvivenza (Ambiguity in the Question of Survival) fu pubblicato nel 1941 sui Proceedings della SPR (volume n. 46). Si tratta di uno scritto che mette in evidenza, in modo lucido e ben argomentato, tutti i dubbi che si possono nutrire in merito alla sopravvivenza della personalità umana nel momento in cui questo tema viene affrontato secondo il punto di vista intelligente della nostra vita. Come si vedrà, le osservazioni di Saltmarsh non sono né gratuite né banali. Va inoltre tenuto presente che lui aveva il massimo rispetto nei confronti delle opinioni di altri studiosi, anche di quelli che – sulla base di motivazioni ragionevoli – ritenevano l'ipotesi della sopravvivenza non solo possibile, ma anche sufficientemente provata. L'opera di Saltmarsh, tesa a mettere in evidenza tutte le implicazioni che la sopravvivenza comporta in relazione alla nostra personalità umana, ha il merito di farci riflettere sulle sintonie della psiche umana (e sui limiti che ne conseguono) che hanno sempre accompagnato qualsiasi considerazione sul passaggio da questa vita ad altre dimensioni. Nel suo articolo, Saltmarsh prendeva lo spunto dal dibattito che da oltre vent'anni si svolgeva in seno alla SPR tra i fautori dell'ipotesi della sopravvivenza (Lodge, Drayton Thomas ed altri) e coloro che, all'estremo opposto, non erano disposti ad accettare la possibilità che l'io cosciente potesse sopravvivere alla morte del cervello (come ad esempio Eric R. Dodds, professore all'Università di Oxford, che nel vol. 42 dei Proceedings aveva pubblicato un articolo intitolato Why I do not Believe in Survival). Dopo aver osservato che tra Drayton Thomas e Dodds, che nell'ambito della questione rappresentavano le polarità estreme, era presente in seno alla SPR tutta una gamma di posizioni personali più sfumate, Saltmarsh si poneva una domanda sensata: cosa si intende col termine sopravvivenza? Si dava ingenuamente per scontato, infatti, che tutti gli studiosi fossero più o meno d'accordo su cosa fosse la sopravvivenza, mentre nessuno si era mai preoccupato di chiarire, più che il significato del termine, quali elementi della nostra personalità umana fossero destinati a sopravvivere alla morte: pertanto, nel presentare il proprio punto di vista, non di rado i membri della SPR facevano riferimento ad un concetto di sopravvivenza non ben definito (derivante da sintonie della psiche variamente orientate), il cui significato non poteva considerarsi unanimamente riconosciuto e condiviso. Si può dare una risposta affidabile al problema della sopravvivenza? Secondo Saltmarsh, non è poi certo che la domanda stessa se sia possibile la sopravvivenza possa avere una risposta affidabile. Infatti, anche senza inserire questa domanda tra quelle alle quali non si può rispondere, o in quanto contengono una contraddizione logica nella loro formulazione, oppure perché le probabilità di indovinare a caso la risposta sono irrisorie, non è una domanda a cui si possa rispondere con il rigore logico di un teorema matematico o con l'evidenza della constatazione oggettiva. In merito all'evidenza, Saltmarsh affermava giustamente che vi sono proposizioni dichiarate evidenti per se stesse da uno studioso, la cui evidenza viene invece messa in dubbio da altri suoi colleghi. In pratica abbiamo ancora una volta la conferma che la verità o meno di certe affermazioni, non direttamente verificabili e non valutabili secondo una regola logica predefinita e condivisa, è determinata dalla psiche personale. Le risposte alle domande come quelle sulla sopravvivenza si fondano sull'attendibilità e sull'accettazione delle prove fornite: hanno, per così dire, un carattere indiziario, e pertanto escludono ogni certezza assoluta. Le prove in favore dell'ipotesi della sopravvivenza possono essere accettate da alcuni e ritenute insufficienti da altri, senza che le si possa mai considerare conclusive al cento per cento. Va comunque ribadito che lo stesso vale nei confronti delle prove contro la sopravvivenza, che non sono in nessun caso conclusive ed esaurienti. Si può osservare che non tutte le prove hanno lo stesso peso, ma alcune sono più convincenti di altre, anche se si può fare riferimento solo ad una percentuale più o meno alta di persone convinte: è difficile raggiungere l'unanimità su qualcosa che non può essere sperimentato direttamente. Saltmarsh osservava che la sopravvivenza viene ritenuta, da coloro che vi credono, come un fatto sperimentabile realmente (a matter of fact), ovviamente dopo la morte. Ciò che sopravvive non può essere identico a ciò che muore Dopo aver eliminato dal novero delle prove valide tanto le argomentazioni etiche quanto quelle religiose, Saltmarsh riteneva che la domanda sulla sopravvivenza dovesse essere riformulata in modo più preciso e logicamente ineccepibile. Eliminava perciò tutte le domande del tipo: «Quando una persona muore vivrà di nuovo?», «C'è una vita dopo la morte?», «La mia esistenza cosciente continuerà dopo la distruzione del mio corpo fisico?», dato che non potevano ricevere una risposta soddisfacente e priva di ambiguità. Poiché secondo lui un essere umano non è una sostanza immutabile, quanto piuttosto un sistema comportamentale (behaviour-pattern) destinato a mutare nel tempo, bisogna chiedersi se le caratteristiche salienti di una determinata personalità associata ad un essere umano prima della morte possano essere riscontrate anche dopo, in modo sufficientemente rappresentativo da identificare quell'essere umano. Sebbene si tratti di una formulazione piuttosto complessa ed anche intrisa di un certo formalismo psichico tipicamente umano, non va dimenticato che in questa vita il riferimento fisico oggettivo dell'identità personale è costituito dal corpo, che con la morte viene distrutto: come giustamente affermava Saltmarsh, ciò che eventualmente sopravvive non è identico a ciò che è assoggettato al processo del morire. Dunque si deve ritenere che tutte quelle caratteristiche del modello comportamentale umano legate al corpo fisico non possano continuare ad esistere dopo la morte, anche nel caso in cui il nostro corpo fisico fosse sostituito da un altro strumento di natura diversa, le cui caratteristiche non conosciamo in questa vita per esperienza diretta. Le trasformazioni della personalità umana La personalità di un essere umano è un complesso di caratteristiche fisiche e di disposizioni intellettive, volitive, emotive, mnemoniche, e così via, che potrebbero sopravvivere alla distruzione dell'organismo fisico. Si tratta di un processo in continua trasformazione, dunque i caratteri della personalità di un individuo, oggi, possono essere molto simili a quelli dello stesso individuo di ieri, tanto da darci la certezza di una continuità della sua personalità. Tuttavia, rispetto a dieci anni fa, certe caratteristiche possono essere cambiate sostanzialmente. Del resto, non è un caso se di certe persone si afferma: «È diventato un altro (o un'altra)», oppure: «Non è più lui», anche senza voler tirare in ballo gli esempi di personalità multiple, che sebbene non comuni sono ben documentati nella letteratura psichiatrica. Il nostro corpo fisico si trasforma nel tempo, per cui il mio corpo di oggi è certamente molto diverso da quello di quando ero un bambino di pochi anni, ma le trasformazioni della personalità comportamentale e psichica sono talmente evidenti nel corso della vita che la nostra individualità dovrebbe essere riferita piuttosto ad una storia personale – della quale noi sperimentiamo intensamente solo il momento presente – che non a quel presente che però muta continuamente nel corso di questa storia. In questo consiste il paradosso irrisolto dell'esistenza umana, che viene vissuta come una successione di presenti lungo una freccia del tempo che scorre in una sola direzione, ma nel suo insieme, in quanto storia personale, è una trasformazione, un mutamento continuo nel quale non è facile identificare un singolo carattere identificativo della personalità. Non c'è dubbio, dunque, che la morte rappresenti un'interruzione decisiva della nostra storia personale umana. Possiamo evidenziare fin d'ora la differenza tra la morte di un bambino di due anni e quella di un anziano di novant'anni: quest'ultimo ha alle spalle l'esperienza di una storia personale lunga e complessa, mentre il primo non ha nemmeno raggiunto il livello di esistenza cosciente. Che senso ha, allora, parlare di sopravvivenza? Diventa subito chiaro come il concetto stesso di sopravvivenza, collegato com'è alla psiche umana, sia in sé ambiguo e non possa essere risolto dalle nostre limitate risorse intellettive. Saltmarsh dichiarava esplicitamente che «l'oscurità che avvolge la morte fisica è così densa da frantumare ogni nostra possibilità storica di conoscenza», al di là del valore che vogliamo attribuire alle presunte comunicazioni post-mortem delle entità medianiche o alle apparizioni fantasmatiche più o meno materializzate. Resta dunque un gap incolmabile tra i fenomeni medianici e le nostre facoltà conoscitive ed intellettive. Le interpretazioni sulle modalità della sopravvivenza: il corpo eterico Apro una breve parentesi rispetto alle considerazioni di Saltmarsh, per ricordare in che modo certi studiosi dei fenomeni medianici, corroborati dalle comunicazioni di alcune entità, cerchino di interpretare in modo intellegibile la questione della sopravvivenza. Le interpretazioni più comprensibili, per quanto non inattaccabili sotto il profilo logico, possono essere ricondotte a due. La prima, che potremmo definire del doppio organismo, ipotizza che ciascun essere umano sia dotato di un secondo corpo di natura energetica (chiamato anche corpo eterico o astrale), che si forma e cresce parallelamente a quello fisico: mentre quest'ultimo muore e subisce il processo di decomposizione, il corpo eterico continua a vivere poiché non è soggetto agli eventi aggressivi e deterioranti della realtà fisica. Non solo la vita del corpo eterico prosegue, anche se in una dimensione diversa da quella terrena, ma le sue fattezze estetiche possono essere plasmate intenzionalmente, secondo la volontà dell'io cosciente cui quel corpo appartiene. Dunque il corpo eterico può assumere sembianze simili a quelle del corpo fisico nel fiore degli anni, anche nel caso di una persona morta centenaria, oppure può continuare a crescere per suo conto nell'aldilà, così che l'entità di un bambino morto a pochi mesi di vita può manifestarsi non solo col corpo eterico di un adolescente, ma anche con la relativa personalità che – ovviamente – non ha potuto svilupparsi in questo mondo. Lo spirito La seconda interpretazione è quella dello spirito, un'entità dotata di una propria individualità, che non vive nella dimensione fisica di questo mondo, ma in un'altra dimensione. Di quando in quando, e per ragioni non ben chiare, lo spirito compie escursioni in altre dimensioni, tra cui quella fisica di questa Terra, per condurre un ciclo di esperienze che gli offrono la possibilità di evolversi. Per sua natura, lo spirito non sarebbe in grado di compiere direttamente queste esperienze, ma avrebbe bisogno di idonei strumenti tramite i quali interagire nello spazio e nel tempo di altre dimensioni: per quanto riguarda la nostra vita terrena tali strumenti sono costituiti dall'organismo fisico e da un sistema di connessione alle sintonie della psiche, talvolta definito perispirito, oppure anima. Quanto alla coscienza, non è chiaro se nel corso dell'esperienza della vita umana lo spirito sia cosciente o meno: secondo alcune comunicazioni si ha l'impressione che lo spirito si trovi in uno stato di assopimento o di ibernazione, dal quale si risveglia progressivamente alla morte del corpo fisico, mentre secondo altre lo spirito disporrebbe di un propria coscienza, distinta da quella dell'io, che valuterebbe in modo autonomo l'esperienza della vita. Nell'uno e nell'altro caso, alla morte del corpo l'io spirituale riprenderebbe a vivere coscientemente la vera vita nella dimensione che gli è propria, distillando le esperienze della vita umana appena terminata in accordo con le sue finalità evolutive. Nell'ottica di quest'interpretazione, gli eventi di interruzione traumatica o precoce della vita terrena non sono altro che accidenti secondari, legati al rischio inevitabile che si accompagna all'esperienza dell'incarnazione. Per tornare a Saltmarsh, è comunque evidente – come è stato messo in risalto nella pagina sullo spirito alieno – che la personalità dello spirito non può essere interpretata in termini di sopravvivenza della personalità umana e della relativa storia temporale. Si può tentare di stabilire una relazione tra le due personalità ricorrendo ad un'analogia con lo stato di dormiveglia e di risveglio che segue un sogno molto vivido: per qualche tempo la coscienza continua a mettere a fuoco i dettagli del sogno e l'io si identifica ancora con la sua controparte onirica, ma poi lo stato ordinario di veglia prende progressivamente il sopravvento, e l'io cosciente si predispone ad affrontare le incombenze quotidiane secondo il suo consueto carattere personale, lasciandosi alle spalle l'avventura onirica. Allo stesso modo si comporterebbe l'io spirituale nei confronti della personalità umana, da lui considerata alla stregua di un io onirico. Questioni relative alla correlazione tra coscienza e funzionamento del cervello Dopo aver preso in considerazione l'ipotesi di uno strumento, diverso dal corpo fisico, nel quale la nostra coscienza individuale si trasferirebbe al momento della morte, Saltmarsh osservava che noi, in quanto esseri umani, non possiamo avere nessuna conoscenza certa in merito alle sintonie mentali determinate da questo nuovo strumento, perché tutte le esperienze della psiche di cui siamo al corrente in questa vita sono acquisite tramite il cervello umano. All'epoca dell'articolo di Saltmarsh le NDE erano ancora poco documentate, e dunque mancava l'ampia letteratura di testimonianze e di ricerche ad esse connesse di cui oggi disponiamo. Si tratta, come si è visto nella sezione sulle NDE, di esperienze i cui contenuti mentali – pienamente e lucidamente coscienti – sono ritenuti da alcuni studiosi non compatibili con il funzionamento del cervello, nelle condizioni critiche in cui quest'organo può trovarsi quando la NDE viene sperimentata. Dunque, almeno sotto questo profilo, non ritengo del tutto condivisibile l'affermazione di Saltmarsh: è possibile, anche se non certo, che alcune delle esperienze mentali di cui siamo a conoscenza non siano mediate dal cervello umano. L'analisi di Saltmarsh era rivolta poi a tutti i condizionamenti prodotti dalla psiche umana, dei quali facciamo continuamente esperienza nel corso della nostra vita: che eventi come la fatica, la malattia, le preoccupazioni o le stesse condizioni meteorologiche abbiano un impatto sul nostro sistema psicofisico non è un mistero per nessuno. La concezione riduzionista afferma che l'aspetto fisico e quello psichico sono intimamente connessi nella personalità umana, dunque l'esistenza di un adeguato strumento psicofisico è indispensabile affinché la coscienza possa accedere alle sintonie della psiche. Ma quello che vale in questa dimensione può non valere in una dimensione diversa: uno degli aspetti che più colpiscono in molte NDE è il senso di liberazione subitanea e completa dell'io cosciente dal vincolo del corpo e dalle sofferenze che ne derivano. Si ha la netta impressione che nel corso delle NDE l'io cosciente possa sperimentare dimensioni mentali alternative senza l'esigenza di essere collegato ad uno strumento psicofisico come quello che condiziona in modo così vincolante e limitante la nostra esperienza umana. Saltmarsh non sposava la teoria riduzionista, ed ammetteva la possibilità che, una volta venuta meno la componente fisica del nostro corpo, la nostra mente e la nostra personalità potessero esprimersi tramite un altro strumento sostitutivo. Non riteneva tuttavia che vi fossero elementi sufficienti per provare l'esistenza di questo strumento (una specie di corpo energetico), per comprenderne la natura o per sapere se esso sia già associato al nostro corpo fisico nel corso della vita umana. In sostanza, concludeva Saltmarsh, una volta ammessa la possibilità della sopravvivenza, l'io che sopravvive è qualcosa di molto diverso dall'io che noi consideriamo come il centro di identità personale nel corso di questa vita. La continuità dell'esistenza dell'io cosciente Possiamo tuttavia considerare il punto di vista di Saltmarsh da una prospettiva diversa, che forse ci sarà di aiuto nel chiarire la condizione in cui viene a trovarsi la coscienza individuale nel corso di una trasformazione così importante come certamente è l'esperienza della morte. Esaminando le testimonianze di molte NDE si nota come non vi sia una crisi di identità nel corso dell'esperienza: per quanto insolite ed inconsuete siano le situazioni e le circostanze ambientali nelle quali lo sperimentatore viene a trovarsi, resta la continuità dell'esistenza dell'io cosciente come elemento di riferimento e di garanzia dell'identità del soggetto. Mentre le esperienze mentali cambiano, anche in modo sostanziale, in relazione alle nuove sintonie accessibili nella dimensione che caratterizza almeno in parte le NDE, l'io cosciente resta se stesso. A ben riflettere, questo accade anche nel corso della nostra vita terrena: i contenuti della psiche possono cambiare da un'epoca all'altra della vita, anche radicalmente, mentre l'io cosciente mantiene una sua autopercezione identitaria che non muta nel tempo. Ecco dunque che, se io riesco a considerarmi come un essere cosciente ed intelligente che fa esperienza di determinati contenuti della psiche, anziché identificarmi con essi, la continuità della mia esistenza – anche sotto il profilo dei ricordi determinati dal destino personale – può essere preservata pur in presenza di una trasformazione radicale come quella della morte.
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