Un secolo di dibattito pro e contro la sopravvivenza

 

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La coscienza e la morte del corpo fisico

La condizione umana comporta nelle persone viventi la consapevolezza di dover morire, e dunque prima o poi ci poniamo qualche domanda su cosa ne sarà del nostro io cosciente dopo la morte del nostro corpo. Non c'è dubbio infatti che la morte segni per il corpo la fine di tutte quelle attività complesse ed altamente organizzate che abbiamo preso in considerazione nella sezione sulla vita. A seconda del proprio orientamento psichico, ciascuno si forma un'idea di quelle che potrebbero essere le esperienze a cui andrà incontro dopo la morte, a condizione che possa continuare a disporre di una coscienza in grado di registrare qualche forma di continuità con l'esistenza terrena sperimentata dall'io. Fanno eccezione coloro che credono che l'io cosciente non possa continuare ad esistere dopo la morte. In questo caso non si può nemmeno parlare di una condizione dell'essere morti contrapposta a quella dell'essere vivi, poiché al momento della morte, o anche prima (se si entra in uno stato di coma), col venir meno della coscienza verrebbe meno ogni facoltà di percepire e dunque di esistere e di registrare l'esistenza o la non esistenza di qualsiasi cosa, compreso l'io.

Gli sforzi per sapere cosa ci accade dopo la morte

Tuttavia, come abbiamo più volte osservato, ciò in cui crediamo dipende da ciò che ci suggerisce il nostro orientamento psichico, come risultato di quelle particolari sintonie della psiche umana che determinano e condizionano il nostro modo di essere in questa vita. Nella speranza di poter pervenire ad una forma di conoscenza affidabile e sicura sul destino che ci attende dopo la morte, molti ricercatori hanno svolto indagini sistematiche ed approfondite su tutto ciò che poteva avere una connessione con lo stato di esistenza post mortem. Ad alcune di queste indagini si è già accennato nelle sezioni sui fenomeni medianici e sulla ricerca psichica, dunque nelle pagine di questa sezione saranno valutati i risultati di oltre un secolo di ricerche, di studi e di dibattiti, per vedere quali conclusioni se ne possono trarre.

Coinvolgimento dell'io cosciente nelle sintonie psichiche umane

C'è però una premessa importante che non va dimenticata: la condizione della vita terrena vincola comunque tutti noi alla psiche umana, fatte salve alcune rare eccezioni rappresentate da quegli esseri umani che vengono definiti come illuminati o risvegliati in vita, l'io cosciente dei quali sembra possa esistere in una dimensione separata ed indifferente rispetto alla condizione in cui si trova il corpo. Nell'ambito della psiche umana può esserci praticamente di tutto, e ad ogni particolare sintonia si contrappone – nel bene e nel male – il suo contrario, che magari non coinvolge il nostro io, ma di certo quello di altri esseri umani il cui orientamento psichico viene ad essere molto diverso dal nostro. In questa condizione, che possiamo considerare una sorta di sudditanza nei confronti delle istanze della psiche, uno dei comandi ai quali siamo più soggetti è quello della sopravvivenza del corpo, che permea tutta la nostra cultura sociale portando ad esorcizzare, ad allontanare ed a rimuovere la morte come qualcosa di nefasto. Giova ben poco ricordare che la morte è un evento che riguarda noi tutti indistintamente, per il solo fatto di essere nati, e dunque qualche curiosità e qualche interesse può anche suscitarli.

Viene anche da chiedersi per quali ragioni gli attuali programmi socioculturali che condizionano la nostra mente insistono tanto sul valore della vita e sull'importanza del suo prolungamento (anche forzato). È vero che una vita vissuta consapevolmente in tutte le sue fasi, dall'infanzia alla vecchiaia, costituisce un'esperienza più completa rispetto ad una vita interrotta in modo traumatico, ma vi sono eccezioni rappresentate dalla ricerca del rischio o dal suicidio volontario: si ritiene comunemente che il suicidio sia dovuto a condizioni di vita penose o disperate che attivano sintonie psichiche tendenti alla distruzione del corpo, ed in molti casi è certamente così, ma ci sono anche forme di suicidio che si configurano come una conclusione volontaria e logica della vita (come facevano gli stoici), oppure che vengono vissute come una liberazione da una condizione di vita avvilente, a causa dei limiti del corpo. Ci si potrebbe chiedere, in ogni caso, quale reale valore può avere per l'io cosciente una vita che resta pur sempre condizionata da forze psichiche le cui finalità ci sfuggono.

Condizioni di sofferenza che possono precedere la morte

Inoltre, al di là dell'evento della morte – che in sé si configura come un episodio, se non proprio istantaneo, comunque abbastanza rapido – per molte persone la fine della vita è preceduta da un periodo più o meno lungo di declino psicofisico, non di rado associato a varie sofferenze, dovuto alla stessa vecchiaia oppure ad una malattia terminale: si tratta di esperienze non certo esaltanti, e penose non solo per chi le vive in prima persona, ma anche per coloro che ne sono coinvolti per i legami affettivi. In condizioni di questo genere il prolungarsi di una condizione che viene artificiosamente considerata come vitale, al solo scopo di ritardare quanto più possibile un evento che dovrà comunque verificarsi, è sintomatico dello scarso livello di evoluzione delle sintonie psichiche che determinano gli attuali condizionamenti socioculturali. Spesso, infatti, il prolungamento della vita e delle sofferenze di una persona non è attuato nel rispetto della sua volontà e dei suoi desideri, ma viene imposto in ossequio a finalità sociali che restano per noi oscure.

Non si intende con questo presentare o difendere una svalutazione dell'esperienza della vita umana: una simile posizione rappresenterebbe solo una sintonia psichica negativa, alla quale se ne potrebbero facilmente contrapporre altre che mettono in risalto i tanti aspetti positivi, interessanti ed anche gratificanti della vita. Mi sembra invece più importante evidenziare come, nello sperimentare quei particolari nuclei psichici che rappresentano la quintessenza della nostra vita interiore, ognuno di noi esegua una specie di compito assegnatoli dal destino, obbedendo ai comandi che riceve per la via più diretta ed efficiente: la propria mente. Nell'ambito di questo sistema, via via che la vita di ogni essere umano procede, si possono provare momenti di gioia e di felicità, ai quali di solito se ne alternano altri di dolore o di tristezza, ma appare piuttosto evidente come, nell'ampia gamma delle esperienze psichiche in cui siamo tutti coinvolti, quelle negative siano ampiamente diffuse, se non addirittura predominanti. Per questa ragione, ad un momento di felicità di cui io faccio esperienza posso sempre contrapporre un momento di infelicità o di angoscia da parte di un'altra persona: questo solo fatto è sufficiente a porsi non pochi interrogativi sul significato della vita.

Qual è il significato della vita umana?

Volendo ipotizzare che il nostro compito di esseri umani sia quello di trasformare le esperienze prevalentemente negative della psiche in componenti positive, resta il fatto che tutta la storia umana è stata profondamente e caoticamente segnata proprio dalle componenti negative, ragione per cui, allo stato attuale delle cose, potremmo anche chiederci se il fenomeno psichico non sia per sua natura ambivalente e conflittuale (concezione che è stata ben assimilata nell'ambito di alcune culture). Ne consegue che ogni creatura umana sarebbe destinata a svolgere il suo ruolo sul palcoscenico della vita, nel bene e nel male, per il solo fatto di essere venuta al mondo. Dunque, nel momento stesso in cui l'esperienza cosciente di una persona venisse del tutto meno con la morte, nulla e nessuno sarebbe in grado di offrire una spiegazione o una giustificazione dei motivi per cui ha vissuto, delle finalità dell'ordine generale delle cose del mondo fisico e delle dinamiche del fenomeno psichico. Il che ridurrebbe noi esseri umani al ruolo di automi, di funzionari costretti a vivere alla giornata, operando ed adempiendo ai nostri compiti in accordo con i programmi ed i comandi ricevuti tanto dall'esterno quanto per via interiore, finché non arrivi la morte. Nel corso della vita potremmo essere più o meno fortunati, più o meno felici, più o meno abili, più o meno ammirati o gratificati, ma tutto questo sarebbe solo la conseguenza del nostro destino nell'ambito di un sistema che – non prevedendo la continuazione dell'esistenza dell'io cosciente ed intelligente oltre questa vita – non ci darebbe mai nessuna informazione e nessuna conoscenza sulle finalità della nostra vita, al di là del ruolo svolto in ambito sociale.

Un importante giudizio di valore

Poiché questa vita si svolge nel tempo, ogni esperienza psichica corrispondente ad un determinato evento, per quanto memorabile, significativa, emozionante o inebriante, è destinata col trascorrere degli anni a stemperarsi nella memoria, sempre a condizione che gli strumenti mentali che rendono possibile la memoria continuino a funzionare in modo soddisfacente. E siccome con la morte viene comunque meno il sistema operativo per eccellenza, cioè il cervello, l'unica memoria che rimarrebbe di noi sarebbe quella depositata nel ricordo di chi ci sopravvive: dal punto di vista dell'io cosciente e dell'intelligenza mi sembra un quadro del tutto insoddisfacente. Dunque, prima ancora di chiedersi se la sopravvivenza della coscienza alla morte sia possibile o meno, ci si dovrebbe interrogare su quale dovrebbe essere il nostro giudizio di valore nei confronti della condizione umana sperimentata dall'io cosciente in questa vita. Sebbene mi sembri evidente che le forze che determinano i fenomeni della vita e della psiche siano di un'ordine di grandezza nettamente superiore rispetto alle deboli risorse di cui siamo dotati, questo non implica che l'io cosciente debba restare passivamente ed acriticamente subordinato a quelle forze, riconoscendone ed avallandone così il potere.

La propria dimora

È vero che siamo senz'altro assoggettati ed asserviti, tramite il corpo e le sue esigenze, alle richieste ed ai comandi che riceviamo, ed è altrettanto vero che siamo sensibili alle lusinghe, alle illusioni ed alle ricompense che la psiche ci offre sotto forma di emozioni e di gioie (non di rado pagate anche a caro prezzo), in modo da coinvolgerci ed irretirci efficacemente nelle dinamiche della vita. Ma, pur senza doverci ribellare tramite qualche forma di distruzione del corpo, siamo anche liberi di vivere la nostra vita preparandoci ad una dimensione diversa, più congeniale alle esigenze di libertà, di creatività, di comprensione e di amore proprie dell'io cosciente, esigenze che nel corso di questa vita vengono in gran parte deluse. Per questo la sopravvivenza della nostra coscienza e della nostra intelligenza alla morte può essere considerata anzitutto come la manifestazione di un diritto, l'esigenza di poter andare nella propria dimora dopo un'avventura (interessante ed anche affascinante, ma certo faticosa e non di rado dolorosa) in una terra straniera. Si può dunque affrontare la morte come l'accesso ad una dimensione nella quale il significato dell'universo e della nostra esistenza – che in questa vita ci è stato oscurato – più che esserci svelato o insegnato, diventi manifestamente evidente nell'ambito di una vera conoscenza diretta, e tutte le creature esistenti siano interconnesse in un sistema più armonioso, permeato di intelligenza e di amore. Qualsiasi diverso atteggiamento sarebbe per l'io cosciente un riconoscimento passivo, consenziente ed impotente, della nostra riduttiva condizione umana nel ruolo di servi o di automi.


 

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