Storia di un medium italiano: terza parte

 

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L'entità Boccacci

Quest'entità si era manifestata già nel periodo tiptologico, ma assunse un forte rilievo successivamente, nel periodo della voce diretta, soprattutto quando dettò il romanzo Gocce di Rugiada, dal dicembre 1939 al novembre 1940. Penso che sia stata una delle entità più interessanti tra quelle manifestatesi durante tutto l'arco delle sedute, e per questo può essere utile metterne in luce i tratti salienti. A quanto pare l'entità Boccacci voleva farsi identificare fin dalla sua prima manifestazione con Giovanni Boccaccio, e come tale venne riconosciuta dai partecipanti. Sebbene noi oggi siamo abituati a riferirci allo scrittore chiamandolo Boccaccio, la dizione Boccacci è corretta e corrisponde all'uso, diffuso nel parlare toscano ma anche nella lingua italiana fino all'Ottocento, del trasformare il plurale del cognome che seguiva il nome in un unico singolare che identificava il personaggio: così Giovanni Boccacci diventava il Boccaccio, o Niccolò Machiavelli il Machiavello. Ancora nel 1857 l'edizione del Decameron di Felice Le Monnier riportava come autore Messer Giovanni Boccacci.
2 dicembre 1937 - «Chi sei?» «Giovanni Boccacci. Fui sepolto a Certaldo. Il corpo mio tanto fu cercato, ma fu trafugato da gentil dama». «Puoi dire dove è ora il tuo corpo?» «No». «Ami tu la poesia?» «Sì. Lo core mi si stringe. Come è duro mangiar lo pane altrui! Guardate di non scherzare troppo».
Alquanto imprecisa la citazione dantesca (…come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale). Quanto alla sua identità, Boccacci vi fece riferimento di frequente: «Chi sei?» «Boccacci… Che ne dite del mio Decamerone? Non dubitate che io sono Boccacci; avevo otto anni quando morì il divino poeta. Sei mai stato a Certaldo? Io mi aggiro spesso fra quelle mura». La citazione delle date è esatta: nato nel 1313, Boccaccio aveva otto anni quando Dante morì, nel 1321.

Boccacci fece quasi subito cenno al suo romanzo Gocce di Rugiada, dicendo che fu smarrito e che avrebbe potuto dettarlo in seguito ai partecipanti affinché fosse inviato alle lettere. Tuttavia per diverse sedute non si trova più alcun riferimento a Boccacci, che poi ritornò, comunicando (tiptologicamente) in forma più simile a quello che diventerà il suo caratteristico modo di esprimersi in voce diretta.
16 gennaio 1938 - Intervento di G. Boccacci: «La pioggia cadea rada quando messer Seri sbucò da dietro la castella; intinto avea il manto. Mai come allora l'avevo io visto; serio avea il volto, e appena in tre salti fu a me giunto; la voce avea affannosa. Addio».
17 gennaio 1938 - «Chi sei?» «Boccacci. Avrei piacere che visitaste il paese della mia vita, Certaldo». «In primavera, tasca permettendolo, lo faremo volentieri». «Io vi seguirò. Il mio corpo tanto amato, mai fu trovato». «Dove è il tuo corpo?» «È a… è a… Che strazio vedere una pratolina piegata sul suo stelo! Così quella fanciulla. Vi saluto».
Curiosa l'ultima frase di Boccacci, a proposito della pratolina piegata sul suo stelo, perché sembra del tutto avulsa dal contesto. Forse è un accenno anticipato a madonna Grazia, l'eroina del romanzo Gocce di Rugiada.

Gli accertamenti sul luogo della sepoltura del Boccaccio

In merito alla scomparsa del corpo (o meglio delle ossa) dello scrittore, un tema che fu oggetto anche di altre comunicazioni riportate nei verbali, oggi disponiamo di informazioni abbastanza affidabili. La legge leopoldina del 1783 impedì la sepoltura e la conservazione dei resti umani nelle chiese del Granducato di Toscana. Nel 1921 vennero realizzati degli scavi nella chiesa dei SS. Jacopo e Filippo a Certaldo (dove una lapide e alcune iscrizioni commemorative ricordano la sepoltura del Boccaccio) e vennero ritrovate delle ossa nello scavo al di sotto della lapide. Fu nominata una commissione di cui faceva parte Domenico Tordi, studioso e collezionista di cimeli, il quale scrisse che le ossa dello scrittore erano andate perdute con la riforma leopoldina, in seguito alla quale la tomba del Boccaccio era stata aperta e le ossa trasportate e sparse nel cimitero della chiesa priora dei Santi Michele e Iacopo. Già Lord Byron, nei versi del quarto canto del Childe Harold's Pilgrimage del 1818, aveva denunciato la distruzione della tomba del poeta. Nel 1913 don Alessandro Pieratti, prevosto di Certaldo, affermò di avere scoperto la vera tomba in fondo alla chiesa in corrispondenza del primitivo ingresso. In seguito, nel 1921, l’ing. Antonio Marzi attribuì allo scrittore un teschio rinvenuto in una parete della casa del Boccaccio a Certaldo, ma nel 1925 Giuseppe Fontanelli, curatore della casa del Boccaccio, durante una riunione della società storica della Valdelsa dimostrò che quel teschio proveniva invece dai reperti rinvenuti nella zona archeologica certaldese, e dunque non poteva essere riferito allo scrittore. Dunque, se è vero che oggi non sappiamo dove si trovino le ossa del Boccaccio, sembra accertato che fino al 1783 il suo corpo sia rimasto all'interno della sua tomba nella chiesa di Certaldo (si veda: Del sepolcro di Messer Giovanni Boccaccio - Esame storico di Giuseppe De Poveda del 1827).

Comunicazioni a voce diretta dell'entità Boccacci

In seguito Boccacci comincia a parlare in voce diretta:
24 maggio 1938 - Boccacci chiede di una persona (lo scrivano mio) la quale in altre sedute trascriveva una poesia che l'entità dettava. Sempre Boccacci ci parla di un libro da lui scritto e intitolato: Gocce di Rugiada che non è stato pubblicato; dice che questo libro è molto meglio ancora del suo Decamerone… Si manifesta Boccacci e dice che ama farsi vedere come era una volta, ché ben pochi profili lo rassomigliano. Si nota intanto una emissione di ectoplasma dal petto del medio.
Quest'ultima affermazione lascia intendere che Boccacci si fosse materializzato, dato che il verbale riporta che: ama farsi vedere come era una volta, ed in effetti una sua materializzazione è citata espressamente nel verbale del 20 maggio 1938. Sotto questo aspetto, il ritratto che di se stesso fa Boccacci (alto, magro) è molto diverso dall'immagine che ci è pervenuta del Boccaccio, il quale già nella maturità soffriva di fastidiosa obesità, e poi, in vecchiaia, di idropisia:
1 giugno 1938 - Si manifesta Boccacci parlando dei suoi tempi e della sua persona; dice che lui era alto e magro, sguardo profondo e che volgea da sinistra a destra rapidamente tanto che qualcuno ne aveva impressione, passo lento…

In questo periodo Boccacci si era cimentato nel dettare a Gino Franchi, citato come lo scrivano che molto gli piacea, una sua poesia. Il dettato andò avanti per un paio di sedute e, come raccontava Ravaldini nel suo libro, «la poesia, in versi ottonari a rima alternata, descrive le nozze di un non meglio identificato messer Lorenzo con monna Lisa Cavalcanti, soffermandosi dettagliatamente su alcuni personaggi intervenuti alla cerimonia e adoprando nei confronti di essi la lingua lunga delle comari». Ad un certo punto della dettatura uno dei presenti manifestò il suo disappunto per le espressioni troppo esplicite usate dal Boccacci, e questo intervento mise fine al dettato. Ecco il saporito commento all'episodio, preso dal verbale di quella seduta.
9 giugno 1938 - Amato permette a Boccacci di continuare a dettare la sua poesia perché c'è uno che molto comprende i suoi scritti. Essendoci fra gli assistenti uno che si fa chiamar professore, ma che in realtà non capisce nulla, e sembrandogli (col suo piccolo cervello) che lo scritto così bello di Boccacci sia un po' troppo scollacciato, si permette di chiedere all'entità il favore di dettare frasi più corrette. Questa insipida, quanto banale, osservazione è valsa a far troncar di botto il dettato della poesia e a far perdere luce tanto a Boccacci quanto ad  Amato.

Per chi fosse curioso, ecco il testo integrale della poesia, trascritto da un quaderno con uno strappo, come un foro, che si ritrova in tutte le pagine. Il quaderno venne infatti ritrovato dopo un bombardamento durante la guerra, e lo strappo è dovuto ad una scheggia che lo aveva attraversato da parte a parte. (Le strofe vanno lette da sinistra verso destra).

Messer Lorenzo sposaa   
Monna Lisa Cavalcanti      
e in se stesso s'apprestaa    
desideri assai brucianti.

«L'astro nostro che sia tuo»     
(le diss'io in cuor battendo)     
e volgendomi allo suo:      
«Car messer ti sta fondendo».

Fatta è di porco grasso
con del mel rimescolato,      
dentro è il fiel di certo tasso
pianto c'è di violato.

Rossa Lisa era al volto
lo suo labbro già tremaa
lo pensier avea molto
per la sera che arrivaa.

Po' di piano si curvaa       
snocciolando chi sa cosa      
po' ancora si voltaa      
assumendo certa posa.

C'era Giulia e Maria
tutte pien di tal moine       
ch'ammirate eran per via
di sue vesti molto fine.

C'eran pure altri tanti
che non mi ricordo io,
fitti c'eran come santi
che 'n contorno stanno a Dio.

Po' che 'l poto lavoraa       
certi lazzi si sentian       
qualche uno già sognaa
e le monne già svenian.

Ecco là la monna bella      
degna certo di pintor,
che piacere avere quella       
per adisfar certo sentor.

Allor monna molto irata
per sua pena che sentia,     
altro stel s'era cercata
che sua pen' molto lenia.

Po' un broto giù colaa
certa roba un po' oliosa,
e con man essa mandaa
quell'insiem coll'altra cosa».

E di casa ero pur'io      
all'invito accettando       
giunto dissi: messer mio,  
ti sognai molto colando.

Allor Lisa schiuse bocca
in trillante sua risata       
come rivo che trabocca
mi mirò con cert'occhiata.

Io mai adoperolla        
perché mai n'ebbi bisogno
ma messere fra' Cipolla
dice a sé: io l'agogno.

Fu Lorenzo assai grato
ringraziò pien di contento
per lo don inaspettato
io diceo er'un portento.

Tutti noi pigliammo posto
per la certa cerimonia.
Io di dietro steo con Gosto
c'era pur messer Solonia

C'era Banfo il ceruso     
negli anni molto andato
a sua monn' non dea uso
per temor d'andarn'un fiato.

Quel tal prete già finia      
certa sua cantatina
e per l'aria si sentia
il profum di certe vina.

Monna Lisa mi miraa         con cert'occhio amoroso
e chi sa che ne pensaa
dello mio molto curioso.

C'è pur là la monna brutta
con speciale sua natura
in calor si mette tutta      
ch'abbisogna certa cura.

E nel verde di un bel prato
piano piano dié appiglio
a quell'esser molto amato,
e tesseron quasi un miglio.

Si colaa pien di voglia
a sentirlo tutti noi…

(qui il testo si interrompe).

Chiuse bocca sorridendo    
lo messere assai contento     
giunse Lisa assai splendendo
con sul volto un certo accento.

Presi allora a dire intanto      
«Car messer io vi dono      
spezial roba che val tanto       
per calmar stridente sono.

Fortunato quel messere     
ch'ha bisogno di tal grasso;
proverà molto piacere        
nello spande un dito scarso.

Già suonaa la campana        
e un prete canticchiaa
con dell'aria un po' mondana
per lo torno a sé schizzaa.

col suo mant' poco scarlatto
che mi dea certa noia
col suo fare senza tatto,
al suo lato monna Gioia.

La sua monna detta Bianca
giovin molto negli anni       
bene fatta era sull'anca        
ch'apparia da certi panni.

E d'un fiato ebbe votato
ciò che dentro avea messo       
in un calice dorato
molto alto e molto spesso.

Ecco allora quel giullare        
che su panca molto ritto       
cominciò col suo strofare       
con sua man dicendo zitto.

Un messer io conoscea
che portossi dietro pena 
per lo stel che non ergea    
quando monn' mettea in vena.

Mentre gli occhi si velaan       
vider due buon tessieri,
due corpi spasimaan
nel bel colmo dei piaceri.

Era assai di crino nero       
avea il volto assai bianco        
l'occhi suoi dicean vero        
portamento assai stanco.

Ecco qui messer felice
la recetta del portento
che messer Cipolla dice      
son sicur non c'è lamento.

Oilà caro messere        
quest'è 'l dono che fo io        
per le sere del piacere         
prendi pur, amico mio».

Mentre noi già si entraa    
tante genti eran sull'uscio; 
chi urlaa e chi pigiaa
per mirar la sposa e 'l fruscio.

C'era pure tal giullare
che di casa Cenci era
e si dea un cer' da fare
a trar burle per la sera.

Ben quell'anca conoscea        
certo Seri buon messere       
che sua era se volea
per cercar certo piacere.

A cerimonia finita 
convitati anch'a cena 
c'era fam ch'era sentita
e sbafammo con gran lena.

«Monne belle e monne brutte
che di fine vi vestite
per me buone sono tutte     
s'anco poco voi sentite.

Quello stel con cura preso    
da due man gentili molto,      
rimanea sempre offeso       
ricadendo sul suo folto.

L'un dall'altro si scostaan       
ansimando su per china       
per li nomi si chiamaan
or che fine era vicina.

Ho riportato il testo della poesia esattamente come è scritto sul quaderno, sebbene il Boccacci si lamentasse, come raccontava Ravaldini – (e come si rileva dal verbale della seduta del 4 novembre 1938: «Boccacci parla del suo ultimo dettato di poesia e dice che chi scrisse mise degli errori» – che vi fossero degli errori nella trascrizione, commessi dallo scrivano. Certo, per rispettare la metrica bisogna leggere come bisillabiche tutte le desinenze in -aa, che in effetti stanno per -ava, inoltre qua e là il verso zoppica, e talvolta la rima è tirata per i capelli. Ma al di là del rimario, pur riconoscendo al componimento una certa salace arguzia di tipo popolare, certamente questo testo non solo è totalmente alieno da qualsiasi cosa il Boccaccio abbia mai scritto, ma è del tutto distante, formalmente e stilisticamente, dal racconto Gocce di Rugiada che verrà poi dettato dalla stessa entità. D'altra parte l'usanza di celebrare particolari eventi, come le nozze, in versi ottonari più o meno improvvisati, era ancora viva in Valdelsa fino ai primi del Novecento, secondo quanto risulta da un libro fuori commercio, intitolato proprio Valdelsa, in cui l'autore, Umberto Guido, pretore a Castelfiorentino dal 1925, descriveva con rimpianto e poetica malinconia l'ambiente ed i personaggi di quell'epoca. Fu proprio Ravaldini a mandarmi una copia del libro, per farmi comprendere meglio l'ambiente e l'atmosfera di allora. Bene, la poesia del Boccacci dà più l'impressione dell'improvvisazione ad effetto di un rimatore popolare che non quella di un componimento studiato e ben costruito.

Due pagine del quaderno in cui fu trascritta la poesia. La lacerazione fu causata da una scheggia durante un bombardamento.    

In seguito Boccacci raccontò (sempre in voce diretta) altre cose sul suo conto:
10 luglio 1938 - Manifestazione di Boccacci, che dice: «Il mio corpo fu molto cercato, ma non fu mai trovato perché fu trafugato da una gentil dama. Il mio corpo fu sepolto in una chiesa vicino alla mia castella, ma una notte quattro messeri e una madonna lo trafugarono dalla chiesa e lo seppellirono in altro luogo. Uno di essi messeri, per mezzo di una scala, penetrò nella chiesa calandosi da una finestra, e quindi aprì la porta agli altri. Essi indossavano certi mantelli spalmati con certa sostanza affinché non si sentisse troppo il puzzo che il mio corpo mandava perché già sepolto da cinque giorni. Quando furono entrati smurarono la tomba, presero il mio corpo, lo ravvolsero ed uscirono in silenzio. Era una notte di molto vento e molto nuvolosa; io tremavo per loro. Uscirono, andarono dritto eppoi voltarono a destra. Il mio corpo è ancora lì, un po' scomposto per l'avvallare del terreno, ma sarebbe molto facile il trovarlo, e certi documenti che ivi si trovano ne comproverebbero l'autenticità, ma a me piace restare dove sono perché è stato voler mio».
Si è già detto delle ragioni per le quali si ritiene che le ossa del Boccaccio siano andate disperse. La casa di Boccaccio, tuttora esistente nella parte alta di Certaldo e vicina alla chiesa, fu gravemente danneggiata dai bombardamenti del 1944: restaurata nel 1947, è attualmente valorizzata come monumento e centro di studi. Anche se vi è chi sostiene che non fosse la casa originale del Boccaccio, l'edificio riconosciuto come tale è effettivamente provvisto di una loggetta all'ultimo piano, come citato dall'entità Boccacci (vedi oltre).

Nella storia raccontata Boccacci sembra indicare, come luogo di inumazione delle ossa, un posto all'aperto, dato che dice: uscirono (dalla chiesa), andarono dritto e poi voltarono a destra, e poi parla di terreno avvallato. Fin dalle sue prime manifestazioni tiptologiche aveva detto che avrebbe avuto piacere che i partecipanti visitassero il paese della sua vita, Certaldo. Nella seduta del 3 agosto 1938: Boccacci parla della sua castella invitandoci a visitarla e dicendo che ci farà una sorpresa. E successivamente:
6 settembre 1938 - Boccacci… ringrazia della visita che abbiamo fatto alla sua castella, e dice che il dipinto che si trova nella prima stanza non lo assomiglia; quindi prosegue: «Io ero alto e snello, occhi che volgea da sinistra a destra, e un certo messere paesano temea il mio sguardo così che quando incontravalo, molto mi divertiva».
Nei verbali delle sedute non viene detto altro, ma a proposito di questa visita Ravaldini ricordava che andarono, lui con la madre e la zia, a visitare la casa del Boccaccio a Certaldo, appunto nel 1938, e dietro indicazione dell'entità Boccacci cercarono una zona nel pianerottolo della scala, tra il piano terra ed il primo piano, nella quale, battendo con le nocche sul muro, si poteva percepire l'esistenza di una cavità all'interno della quale si sarebbero trovate le ossa del suo corpo. Secondo i parenti di Ravaldini la cavità esisteva, ma naturalmente nessuno fece un buco per guardare all'interno. Dopo il bombardamento del 1944 qualsiasi possibilità di fare delle verifiche venne meno.

L'anticlericalismo dell'entità

In una seduta precedente Boccacci se la prendeva apertamente con i preti.
9 agosto 1938 - Parla Boccacci: «Molta fantasia c'è nei miei scritti. Chi parla di me e delli tempi miei, molto esagera; io fui uomo morale e di contegno come tanti altri, ma non come quei cosi neri. Non feci del male, anzi feci bene a molti. Fui molto perseguitato da quelli cosi neri che molto io li combattea; voleano imprigionarmi, e per questo misero sulla mia persona una taglia come si usa per li assassini, e dovei stare per dei giorni nascosto in casa. Se veramente esistesse lo inferno che ha descritto lo divino poeta Dante degli Alighieri, bisognerebbe farvi ancora uno fondello al di sotto per collocarvi tutti quei cosi neri. Vorrei dirvi tante cose delli miei tempi e parlarvi anche di certo sposo messer Lao. Io, a sera, appoggiato alla colonna della mia loggetta, molto contemplavo la natura e molto scrivea di vena».
Il Boccaccio storico non ebbe cattivi rapporti con il clero, e fu lui stesso un uomo religioso: nel 1360 papa Innocenzo VI lo autorizzò al sacerdozio. Quello che racconta nel Decameron, in merito ai costumi non proprio esemplari di preti, frati e monache, apparteneva all'aneddotica del tempo, ed era ben noto a tutti. Nel 1362 ebbe una crisi profonda perché il monaco certosino Pietro Petroni, in fama di santità, aveva minacciato pene infernali a lui ed al Petrarca se non avessero abbandonato la vanità delle lettere profane. Fu perfino sul punto di voler distruggere il Decameron, ma ne fu dissuaso dal Petrarca. Comunque, negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla meditazione religiosa. Nessuno mise mai una taglia sulla sua persona.

Le manifestazioni di Boccacci registrate nei verbali successivamente diventano molto più rade.
30 novembre 1938 - Boccacci: «Molto era ch’io non favellaa; lo mio spirto contemplaa l'Infinito. Penso di certo frate Gallina. È qui anche messer Banfo, ha luce di egual vibrazioni e si vuol reincarnare. Accostate le tende; le radiazioni della luce artificiale danno noia alle radiazioni del medio».
24 gennaio 1939 - Boccacci: «Messeri e monne, luce a voi».
9 febbraio 1939 - Boccacci: «Molto era ch'io non favellava, ma molto vi sfioro».
12 febbraio 1939 - Boccacci: «Luce, messeri e monne, la mia promessa l'avrete esaudita».
Probabilmente in quest'ultimo breve intervento Boccacci fa riferimento alla dettatura del suo romanzo, che come vedremo inizierà da lì a poco. Ma sul romanzo, sulla sua trama e sul suo linguaggio avremo modo di soffermarci nelle pagine allo stesso dedicate.


 

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