Altri episodi della vita del medium

 

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La fine dell'attività di medium

Nel corso dell'ultima seduta registrata, il 28 marzo 1952, Mariòl aveva detto: "Sento, ma non vorrei dire, con grande dolore da parte mia, sento che noi staremo ancora per breve insieme così". Quando Silvio Ravaldini le chiese se avrebbe cessato di svolgere il suo ruolo di guida, Mariòl rispose: "Cesserò, cesserò ma non cesserò di pregare per tutti voi anche quando non udrete più la mia voce...". Tuttavia anche in altre occasioni Mariòl aveva annunciato che prima o poi avrebbe smesso di manifestarsi, ma ad ogni seduta successiva si era puntualmente ripresentata. Invece, ecco la cronaca – tratta da Realtà e Mistero – di quanto accadde dopo l'ultima seduta: «La settimana successiva alla seduta del 28 marzo 1952 ci riunimmo come di consueto. Il medium si pose sulla solita poltrona nella camera a lui riservata. Le tende nere erano aperte; nella nostra stanza era accesa la luce rossa. Dopo circa dieci minuti di attesa le gambe del medium si sollevarono dal pavimento e assunsero l'aspetto rigido del suo normale stato di trance. Vi fu qualche accenno di tiptologia, ma indecifrabile. Poi, dopo altri dieci minuti circa, trascorsi senza che nulla accadesse, le gambe del nostro amico si piegarono di scatto ed i suoi piedi caddero sul pavimento. A poco a poco si svegliò e ritornò cosciente. Rimanemmo tutti meravigliati per questo nulla di fatto. Non sapendo cosa pensare ipotizzammo che il medium si trovasse in condizioni fisiologiche non adatte per la seduta. Ma egli asseriva di stare bene e ci disse che aveva perduto coscienza come avveniva all'inizio dello stato di trance a cui periodicamente si assoggettava. Il ritorno graduale della coscienza era stato simile alle altre volte e credeva che i fenomeni si fossero prodotti come sempre».

Dopo molti altri tentativi, sempre senza alcun risultato, Ravaldini e gli altri partecipanti dovettero arrendersi: «Attendevamo un'altra guida e non volevamo credere che quella porta rimasta aperta per tanti anni su una dimensione così strana, così controversa, così incredibile, si fosse improvvisamente chiusa. Col passare del tempo desistemmo, anche perché le esigenze della vita smembrarono il nostro nucleo familiare...». Nel porsi comprensibili interrogativi sul motivo dell'improvvisa interruzione di tutti i fenomeni medianici, Ravaldini riteneva di poter escludere un sentimento di ostilità o di insofferenza da parte del medium, col quale in quel periodo le relazioni erano cordiali ed affettuose. Fontanelli continuò a prestarsi senza protestare ai molti tentativi di ristabilire un contatto con le entità, ed anche in seguito i suoi rapporti con Ravaldini ed i suoi familiari rimasero fraternamente amichevoli. Sempre sulle pagine di Realtà e Mistero, Ravaldini elencava una serie di possibili motivi che avrebbero potuto inibire le facoltà medianiche di Urbino Fontanelli: per esempio, sembra che in quel periodo il medium soffrisse di un serio disturbo ad un orecchio che ne riduceva sensibilmente la capacità auditiva. Quali che fossero le ragioni del venir meno delle facoltà medianiche di Urbino Fontanelli, è certo che dal 1952 in poi non partecipò più ad alcuna seduta, anzi fece il possibile affinché la sua attività di medium venisse col tempo dimenticata. Continuò a vivere modestamente, lavorando prima come rappresentante di commercio e poi come gestore di un negozio di vino ed olio a Firenze, incarico fiduciario che gli era stato affidato da alcune aziende agricole consorziate, dato che era molto stimato in qualsiasi ambiente lavorasse. Nel ricordo di Ravaldini, era molto legato alla madre ma rimase sempre uno spirito libero e non si creò una propria famiglia. Morì a Volterra nel 1995, all'età di 82 anni.

Un breve racconto

Nel corso della sua vita, anche dopo il 1952, si verificarono alcuni episodi che meritano un cenno. Anzitutto può avere un certo interesse questo breve racconto scritto dallo stesso Fontanelli: Ero in attesa del tram numero 19 sul Lungarno Diaz (a Firenze). Voltavo le spalle al fiume e appoggiato alla spalletta ne udivo lo scorrere. Mi volsi a guardare: l'acqua era di un verde opale e spumeggiava là dove ostacoli del letto e del vecchio Ponte alle Grazie, distrutto dalla guerra, contribuivano a turbarne il placido andare. Il sole, battendo a tratti sull'ondeggiare, lo segnava in riflessi di argento fuso. Lo contemplavo rimanendo estasiato: la natura, anche negli attimi fuggenti, è meravigliosa! Uno sferragliare di tram mi distolse da quella semplice contemplazione. Mi volsi: era il numero 9. Si fermò: ne scesero due signore anziane. Quando fu partito notai all'angolo di una via, dall'altra parte del lungarno, un uomo non tanto anziano e con capelli lunghi, di quelli che spazzolano il bavero; notai pure che il suo vestito era logoro. Sotto al braccio teneva un quadro. Immaginai che fosse un quadrettista o pressappoco. Attraversai la strada e mi avvicinai cercando di sbirciare il quadro. Lui se ne accorse e allora me lo pose in tutta luce. Era una pittura che ritraeva il Ponte Vecchio, e in primo piano non stonava lo scorcio della spalletta destra dell'Arno. Sorrise, e guardando a destra e a sinistra mi venne incontro attaccando subito: «Le piace? Vuole acquistarlo?» e me lo mostrò di nuovo. Sorrisi. «Mi piace». Non finii di rispondere che di rimbalzo riprese: «È una buona occasione, sa! L'ho terminato ieri e stavo per portarlo qua in un negozio, ma se le interessa le faccio fare un buon affare», e lo depose sulla spalletta.    

L'acqua correva gorgogliando e su nel cielo qualche fiocco tenue di nuvola si muoveva lentamente verso ponente. Di nuovo guardai l'uomo di sfuggita; confesso, mi fece pena; quasi mi dolevo di indossare un soprabito nuovo, mentre il mio interlocutore ne era sprovvisto, e la giornata era fredda. In un attimo mille cose, vagliate dalla coscienza, turbinarono nella mia mente, ed acquistai il quadretto per poco più di mille lire. Parve soddisfatto, ma io lo ero ancor più di lui perché compresi che gli avevo procurato un po' di gioia. A volte, solo solo, a tu per tu col mio intimo, mi domando: perché non ci prodighiamo l'uno verso l'altro, per procurarci piccole e grandi soddisfazioni? La vita terrena – questo passaggio – è breve, allora perché prodigarsi ad ingannarci ed a far sì che odio generi odio? Quaggiù tutto è bello; tutto è messo a nostra disposizione; tutto a sufficienza per tutti. Allora?... Allora penso che proprio non vogliamo comprenderci.     

«Lei è di Firenze?» domandò. «No». «L'avevo immaginato». «Come ha fatto?» chiesi incuriosito. «Si vede subito... Coloro che vivono qui lasciano trasparire un'aria come di chi ne sa abbastanza di tutto quanto li circonda. Voglio dire che si sono assuefatti all'ambiente e nulla interessa di quanto è messo loro sottomano. Mi comprende?». Annuii. «Mentre, vede, uno come lei lascia trasparire un'aria, ma non fraintenda, diversa. Si vede che le interessa tutto di qui, perfino lo scorrere di questo fiume sotto questo cielo. Non è vero questo?». Esatto, pensai; poi lo esternai in parole. La sua voce, calda ed accorata nello stesso tempo, si armonizzava col mio animo; mi diventava simpatica. Gli offrii una sigaretta. «Sì, caro signore – riprese dopo aver aspirato una boccata di fumo – chi nasce e vegeta qui finisce con l'ignorare e dimenticare tutto ciò che di grande e di bello desta l'ammirazione altrui». Stavolta fui io a chiedergli: «Ma allora pure lei non è di qui?» «Sì, sono di qui, nato e vissuto fino al presente e mi auguro di chiuderci gli occhi». Poi si appoggiò con i gomiti alla spalletta portandosi le mani alle tempie, e fissando lo scorrere dell'acqua riprese: «Sono mancato soltanto per sette anni, e questi hanno deciso tutta una vita».     

Il suo modo accorato, quasi religioso, d'esprimersi, mi destava curiosità. Aspirò ancora del fumo, che lasciò uscire con profondo sospiro dalle narici, e guardandomi abbozzò un mezzo sorriso e disse: «Ma io, signore, sto annoiandola con i miei piagnistei». «No! No! Continui pure se le fa piacere». «Sono mancato sette anni per via della guerra. Lavoravo in una officina e vivevo con mia madre vedova». Sorrise ancora. «Scommetto che mi aveva preso per un quadrettista nato! Macché! Avevo passione al disegno e nei ritagli di tempo mi dilettavo a fare qualcosa, ma, come ho detto, ero un meccanico di quelli con la tuta e con tanto di calibro, intento a misurare ogni pezzo al tornio. La guerra mi strappò, se così si vuol dire, a quel lavoro, a mia madre e, naturalmente, ad una graziosa bambina di qui, perché ero fidanzato». Aspirò ancora la sigaretta e fece cadere la cenere al di là della spalletta. «In poche parole le dirò che partii per l'Africa con un reparto motorizzato. Presi parte ad aspri combattimenti, e sorvolo su questi, perché ormai tutti sanno pressappoco cosa sia fare la guerra. Giunsi fino ad El Alamein; poi, chissà come, ritornammo sui nostri passi in una disastrosa ritirata che non dimenticherò mai. Ebbi la fortuna di essere fra i prigionieri. Campi di concentramento; filo spinato; mancanza di posta e tanta nostalgia dell'animo di mamma, di Titta (così chiamavo la mia fidanzata) e di questa città».            

Udivo dietro a me i tram che passavano, ma non mi voltavo, tanto ero preso da quel suo modo di raccontare; aveva la parola intonata e mi era gradita all'orecchio. «Passò il tempo, ma sapesse come trepidavo quando al bollettino udivo dire che gli alleati sbarcavano e si avvicinavano a Firenze; il cuore mi batteva forte, quasi da spezzarsi; temevo di non resistere. Quando annunciarono i bombardamenti qui, mi parve che tutto crollasse pure in me. Avevo continuamente davanti agli occhi mia madre e Titta; ora sembrava mi sorridessero per celarmi il terrore, ora sembrava mi chiamassero con i volti terribilmente trasfigurati e mi tendessero le mani come ad invitarmi per una protezione. Creda, mi sembrava di impazzire!». Tacque, ma notai che aveva gli occhi lucidi. Trassi un sospiro anch'io. Fanno pena le sofferenze altrui. Gettò la cicca in Arno, e ne seguimmo per un attimo la corsa nella corrente. Capivo che vi doveva essere qualcosa di più triste nella vicissitudine del mio casuale interlocutore. Lo capivo da come esternava i suoi ricordi e questo mi rendeva più curioso, perché pensavo che alla fine gli avrei potuto rivolgere qualche parola di sollievo e di conforto. «Quanto durò la prigionia?» domandai. «Cinque anni. Ormai non ha più importanza, per me, il ricordo delle date. Mi ricordo soltanto la triste data di mia madre, perché quando tornai era scomparsa. La lasciai che piangeva e pensavo che un giorno l'avrei riabbracciata in lacrime, dovute alla gioia del mio ritorno; invece mi indicarono la sua tomba. Le assicuro però che non piansi e non mi disperai davanti alla sua croce. Ma sono un essere sensibile e quel duro colpo – per chi consideri una madre – se lo prese il cuore». Tacque, ed aveva lo sguardo assente.       

«Decedé in seguito a malattia?» domandai. Mi guardò, e nel suo modo di guardare aveva ora una strana luce. Ma notai che non era d'ira. «So che decedé in seguito a rappresaglia. Era sfollata in campagna. Un tizio sparò ad un tedesco e lo uccise; per rappresaglia i camerati dell'ucciso si dice che prelevassero un certo numero di persone, così com'erano, le chiusero in una stanza e dalla finestra ci gettarono diverse bombe, che esplodendo, lei mi capisce, fecero un macello». Mi feci serio e lo guardavo per dimostrargli, senza frasi, che lo comprendevo in pieno. «Mi dispiace solo di una cosa, sa? Quella di non aver saputo chi fosse quel tizio che sparò su quel tedesco. Mica per nulla! Ormai ognuno tiene i suoi dolori e creda non c'è nessun altro che si prenda la briga di alleviarglieli, ma lo avrei conosciuto volentieri, ripeto, per guardarlo un po' negli occhi...» Macchinalmente con lentezza lasciai scivolare la mano in tasca: trassi le Nazionali presentandogliele. Accettò ancora. «Sì, caro signore, da allora ebbi il sistema nervoso scosso in modo da non dirsi. Mi irritavo per nulla e non mi accorgevo che stavo diventando abulico. L'officina nella quale lavoravo non esisteva più. Bussai per lavoro: nulla. Cominciai con qualche quadretto che vendevo qua e là, e schivai decisamente tutte le compagnie. La mia vita prosegue così, un po' come l'ebreo errante, e quando mi assalgono tristi pensieri cerco di pensare a un qualche cosa di superiore a tutti: penso a Dio. E a quelli che dicono: "Se non vedo non credo", vorrei poter dire: "Ma ti sembra di veder poco intorno a te?"».     

Si girò e mi indicò un tram in arrivo: «È questo il suo?» Guardai: si stava avvicinando, ed era il mio infatti. Io stavo pensando che questo tipo che mi stava dinanzi – quasi rottame alla deriva – aveva trascurato, nel suo racconto, di dirmi cosa fosse accaduto a Titta; ma ero convinto che più che trascurato avesse sorvolato, forse perché questa era stata la causa più saliente: cioè la stoccata finale sul suo cuore stanco e sul suo modo di vivere. Il tram era quasi di fronte a noi e si udivano i freni in azione. Presi il quadro involtandolo nel giornale. Gli tesi la mano per salutarlo e mentre gliela stringevo, con voce più accorata, come accomiatandosi, disse: «Titta era bella, sa, e la trovai sposata». Salii con altri, e mentre il tram si rimetteva in moto, lo guardai ancora dai vetri. Si incamminava a capo chino, con le mani in tasca e con la sua solitudine, lungo la spalletta dell'Arno. Stavo ancora assorto al suo caso, quando la voce del fattorino mi richiamò alla realtà: «Biglietto signore?».        

Indipendentemente dal fatto che il racconto si riferisca ad un fatto realmente accaduto o – come è più probabile – che sia stato scritto dal Fontanelli magari rielaborando storie relative ad episodi accaduti nel periodo bellico o nel dopoguerra, esso contiene elementi rivelatori delle sintonie psichiche del medium, il quale era incline ad una gioia di vivere contemplativa basata sulla meraviglia per il gioco creativo della natura e sull'incanto per l'arte, ma allo stesso tempo era pervaso da una profonda malinconia per le vicende e le disgrazie umane, nei confronti delle quali sentiva una compassione intensa anche se ingenuamente propensa ad una certa drammaticità di stampo quasi ottocentesco. Lui stesso, forse, si identificava con la personalità dell'artista romantico incompreso e segnato dal destino.

Altri episodi significativi

Fontanelli raccontò più di una volta il seguente episodio a Ravaldini, che così lo riportò nel volume inedito La macchina meravigliosa: «(Nel periodo in cui lavorava come gestore del negozio di Firenze, Urbino) faceva il pendolare, in treno, e dalla stazione di Santa Maria Novella al negozio andava a piedi facendo la strada più corta. Qualche rara volta allungava leggermente il tragitto percorrendo anche un'altra via. Fu passando da quella che un giorno si fermò davanti ad un negozio di abbigliamento, perché l'avevano colpito tre cravatte esposte in vetrina, dai disegni e dai colori molto belli. Il desiderio di possederle gli attraversò la mente, ma fu per pochi attimi: il lavoro non poteva attendere, e proseguì senza pensarci più. Il tempo passò e un giorno, mentre faceva il solito percorso normale, giunto nell'unico punto della città ove c'è un portico, Piazza della Repubblica, col famoso caffè che tanti anni fa si chiamava Le Giubbe Rosse, si accorse che da un bidoncino dei rifiuti, posto dietro l'edicola di fronte alla quale, dal lato della piazza, discutono sempre animatamente i tifosi della Fiorentina, sporgeva una cravatta nuova ancora nella sua custodia di cellophane. Sotto al portico non c'era nessuno. Si avvicinò al bidoncino, ma nello stesso tempo si accorse che a pochi metri da lui c'era un uomo, basso di statura, vestito dimessamente, con le caratteristiche somatiche di un orientale, che lo guardava e sorrideva. Urbino pensò: "Può darsi che la cravatta l'abbia vista prima lui e desideri prenderla. Faccio un piccolo giro e poi ritorno per vedere cosa è successo"».    

«Tornò, ma rivide la stessa scena di prima: la cravatta sporgeva ancora e l'ometto era sempre lì, sorridente. Allora pensò di avvicinarsi al bidoncino con l'intenzione di prendere in mano la cravatta e dire a quel signore: “La vuole lei?". Ma mentre formulava questo pensiero si accorse che l'uomo era scomparso. Sotto al portico vi era solo qualche raro passante, perché tutta la gente stava ancora discutendo dall'altro lato dell'edicola. Urbino tirò fuori la cravatta nuova, ma si avvide che al fondo di questa ve ne era annodata un'altra, sempre nuova, e a questa seconda ne seguiva una terza, pure nuova: erano le tre cravatte che aveva visto tempo prima nel negozio di abbigliamento posto in quella strada che raramente percorreva. Rimase stupito e pensò che qualcuno, magari un commesso, le avesse messe lì per sbaglio, e con le tre cravatte in mano si avviò verso il negozio con l'intenzione di restituirle. Ma giunto sul posto rimase a bocca aperta: il negozio di abbigliamento non c'era più, era stato smantellato e dentro il locale vi lavoravano i muratori per predisporre un nuovo esercizio». Fontanelli conservò sempre quelle cravatte nel loro cellophane, chiuse in un cassetto, perché – diceva – erano troppo belle per indossarle.

Ed ecco i racconti di qualche altra vicenda, sempre tratti dal libro inedito di Ravaldini: «A proposito del ruolo di gestore-commesso del medium, un nobile, il marchese Gondi, che aveva una tenuta agricola e compartecipava alla vendita del vino e dell'olio, possedeva anche un palazzo in pieno centro storico di Firenze, il Palazzo Gondi. Tanta era la fiducia che i proprietari terrieri avevano in Urbino che il marchese Gondi, quando si assentava con la sua famiglia per qualche giorno, lasciava a Urbino le chiavi del palazzo, con preghiera di abitarvi, specialmente la notte. Per questo gli avevano riservato una cameretta per dormire. Un palazzo così antico e così signorile Urbino volle visitarlo da cima a fondo, non una sola volta. Ogni tanto gli sembrava di scorgere un nobile del tempo passato, con abiti d'epoca, che si aggirava nelle sale del palazzo, ma per niente impressionato Urbino non vi diede molta importanza. Ma un giorno, mentre compiva uno dei suoi soliti giri esplorativi si imbatté in un quadro, in un dipinto, che raffigurava proprio il nobile che aveva intravisto in qualche camera. Urbino lì per lì restò un po' turbato, ma il turbamento fu passeggero, perché poi disse fra sé: "Ecco chi era!"».

«Era un giorno di autunno: la pioggia cadeva abbondante e Urbino era in treno, per recarsi al lavoro. Essendo i sedili della carrozza tutti occupati era rimasto in piedi sulla piattaforma. Ad una stazione montarono due ragazzine, di quelle come ce ne sono tante, che hanno sempre voglia di ridere e di scherzare. Naturalmente avevano l'ombrello. Una disse: "Ma guarda che disdetta! Proprio oggi che piove mi si è rotto l'ombrello". E fece l'atto di aprirlo per farlo vedere all'amica: ma una stecca era rotta e forava la stoffa. Ad un certo momento – disse Urbino (raccontando l'episodio a Ravaldini) – io sentii il bisogno impellente di prendere in mano quell'ombrello. Mi vergognavo, ma non potei farne a meno, l'impulso fu più forte di me. Mi rivolsi alla ragazza e le dissi come se fosse stata una preghiera: "Per favore me lo fa vedere?" Essa sgranò tanto d'occhi a quella richiesta di un uomo maturo che non conosceva. In silenzio me lo porse. Io lo presi e l'aprii. La stecca rotta non c'era più. La ragazza mi guardò stupita e disse quasi senza voce: "Eppure era rotto"».      

«Ancora un altro fatto, accaduto alla stazione di Castelfiorentino. Quasi tutti i pendolari che andavano al lavoro avevano ciascuno una borsa con dentro la colazione per il mezzogiorno. Da un lato del marciapiede sul quale si sostava per attendere il treno vi era una lunga siepe, alta circa un metro, e tutti i pendolari appoggiavano le borse lì perché era più comodo ritirarle all'arrivo del convoglio. Quella povera siepe in parte si era rotta o aveva i rametti divelti e Urbino ci soffriva. Un giorno disse fra sé, forse anche con un po' di rabbia: "Ma è possibile che non si accorgano che danneggiano la natura, che è tanto bella così com'è? Perché non appoggiano le borse sul marciapiede?". Il mattino seguente, come se ci fosse stata un'intesa segreta tra i pendolari, tanto che Urbino rimase molto stupito, tutte le borse, nessuna esclusa (e non erano poche), si trovavano in fila indiana appoggiate sl marciapiede. Il fatto, naturalmente, non si ripeté».       

«Era d'estate. Urbino aveva sistemato alla porta finestra che dava sul terrazzo, dalla parte esterna dell'intelaiatura, una tenda, di quelle a strisce di plastica verticali, che, oltre a riparare dal sole, impedisce anche alle mosche di entrare. Era veramente contento di quell'acquisto e di come gli era ben riuscita la messa in opera. Un giorno un forte temporale sbatacchiò la tenda da tutte le parti, alcune strisce di plastica si ruppero e qualche gancio che le reggeva fu divelto. Quando Urbino tornò a casa dal lavoro ci rimase male, molto male, perché non sapeva come fare per ripararla. Ma... nella notte avvenne il miracolo. La mattina dopo, prima di recarsi alla stazione a prendere il treno per Firenze, Urbino si accorse stupefatto che la tenda rotta era tornata intatta, era ancora nuova come se l'incidente non fosse mai accaduto».      

Un evento a carattere telepatico è stato ricordato direttamente da Fontanelli della conversazione registrata del 1973. Mentre, a Firenze, andava verso la stazione, gli venne improvvisamente in mente il pensiero di un uomo che davanti ad una latteria sparava con una rivoltella ad un'altra persona. Nel timore di arrivare tardi in stazione e di perdere il treno per tornare a casa, Fontanelli non prestò particolare attenzione a questo pensiero e continuò per la sua strada. Ma il giorno dopo lesse sul giornale che in una latteria un uomo aveva sparato ad una donna proprio nell'ora in cui quel pensiero inatteso aveva attraversato la sua mente.

Un grave incidente ferroviario

Negli scritti di Fontanelli è registrato un incidente ferroviario che non presenta nessun elemento paranormale, ma che colpì il medium per i suoi risvolti drammatici. Il fatto accadde durante un viaggio in treno fatto (probabilmente negli anni '70) per rivisitare i luoghi della Croazia nei quali Urbino era stato da militare durante la guerra: «Parto dalla stazione centrale di Firenze alle ore 17.05 con una vettura che mi porterà direttamente a Zagabria. Ho fatto il biglietto per la prima classe: così, penso, starò più comodo e potrò pure sonnecchiare meglio. Immagino che dovrò viaggiare per più di 15 ore. In un'ora, poco più, sono a Bologna. Qui mi vien fatto di pensare a Silvio (Ravaldini) e mentalmente gli invio un caro saluto. Dopo un buon quarto d'ora di sosta il direttissimo riprende la sua corsa attraverso la pianura della valle padana, quasi interminabile. Alle 20 sono a Ferrara; poi a Padova. Alle 21 sono a Mestre: qui un po' di sosta e dopo poco intravedo, illuminata, la laguna di Venezia. Ancora lunga sosta... si riparte con più di 40 minuti di ritardo, si ritorna a Mestre e da qui... si fila verso Trieste. Intanto comincia a piovere ed il caldo aumenta. Arrivo a Trieste alle 0.30. Altra sosta. Dal mio compartimento scendono quattro persone e rimango momentaneamente solo, finché sale un'anziana signora con dei pacchi. Mi guarda e si allontana in cerca di un altro posto, poi ritorna, mi sorride e mi dice: "Qui forse si starà più comodi". L'aiuto a sistemare i pacchi, mentre il direttissimo riprende il via. Alle 2.20 siamo alla dogana di Sesana. Qui si sosta per il controllo dei passaporti e si entra in territorio iugoslavo. Alle 4 siamo a Postumia, dove sono le famose grotte. Qui cambio l'ora ritornando a quella solare: pertanto sono le 3. Mi alzo e vado alla toilette, anche per sgranchirmi un po' le gambe e rinfrescarmi mani e faccia: mi soffermo nel corridoio e ritorno al mio posto».     

«Intanto la mia occasionale compagna si è addormentata e nel compartimento è accesa la luce di riposo. Siamo solo in due e pertanto mi tolgo le scarpe e allungo i piedi sul sedile di fronte, così mi darò un po' di riposo e cercherò di sonnecchiare. Chiudo gli occhi mentre il mio pensiero vaga qua e là alla ricerca di cose e di volti cari e già pregusto l'arrivo a Zagabria, la città che mi vide tanto più giovane. Già nella mia mente tutto si chiude in dissolvenza, quando un terribile urto mi scaraventa in avanti mentre la signora viene sbattuta dalla mia parte. Il vagone salta avanti e indietro come impazzito e ciò, pur durando poco, è terribile, mentre stridore e lamiere e metalli che si urtano, si piegano e si rompono ci fanno comprendere cosa sta accadendo, e pensiamo che fra un attimo sarà la fine. Preso da un indicibile spavento urlo alla signora di tenersi stretta a qualcosa. Infine un tremendo schianto finale mi fa intuire che tutto è finito. Il mio pensiero va subito a Dio, ringraziandolo perché sono salvo e senza contusioni. Anche la signora, che ha gli occhi fuori dell'orbita (e forse lei vedrà i miei), si tocca in tutta la persona, mi appare come inebetita; e quando si accorge di essere illesa ha uno slancio verso di me abbracciandomi e piangendo dirottamente. Cerco di calmarla e di svincolarmi dalla sua stretta, ma è come inchiodata al mio corpo. Infine riesco a persuaderla che ormai c'è andata bene e che è necessario prodigarsi verso gli altri che avranno avuto il peggio. Infatti udiamo subito grida di aiuto e lamenti da far gelare il cuore. Mi faccio verso il corridoio, ma mi accorgo che il nostro vagone ha assunto una posizione obliqua per cui nel corridoio si cammina male e le due piattaforme sono rimaste letteralmente schiacciate. E pensare che pochi attimi fa ero alla toilette...».       

«I lamenti e i disperati richiami di aiuto aumentano. Ancora non è giorno e a me sembra di vivere come in un pauroso sogno e le mie mani tremano. Comprendo che oramai tutto è passato e che non c'è da temere altro, quindi bisogna darsi da fare. Intanto cominciano ad arrivare abitanti del posto (siamo alla stazione di Preserie, in aperta campagna): agricoltori che hanno udito lo schianto; li vediamo qua e là con dei lumi e ora la scena assume un aspetto quasi irreale con quelle fiammelle tremolanti che si muovono nella notte come fuochi fatui. Questa scena mi s'è talmente impressa nella memoria che non la dimenticherò mai. Con un altro signore – somalo, studente a Perugia e diretto in Bulgaria a trovare degli amici – mi prodigo ad improvvisare una barella con un sedile, dove adagiamo una signora di uno scompartimento attiguo al mio e che sicuramente ha qualche frattura al torace, perché urla e si comprime con le mani la parte dolorante; la facciamo passare attraverso il finestrino, unica via d'uscita. Intanto a levante comincia ad annunciarsi il giorno, che ci presenta ancor più una scena apocalittica: vagoni rovesciati (il convoglio ne aveva 15), qualcuno messo addirittura di traverso sul restante binario, carrelli dei vagoni stessi seminati qua e là, tratti di binario divelti e attorcigliati come semplice filo di ferro e fili dell'alta tensione in un groviglio incredibile. Il vagone dove viaggiavo io, sembra impossibile, era saltato addirittura sopra all'altro, ed ecco perché in un primo momento non mi rendevo conto della sua posizione obliqua. L'altro, rimasto sotto, era schiacciato a metà. A rendere il tutto più disastroso avevano contribuito i vagoni di un treno merci in stazione, i quali, incastratisi nei nostri, hanno creato il peggio. Io continuo a non rendermi conto dell'accaduto. Certo, lo schianto con traballoni dell'intero convoglio è stato terribile! Le grida di dolore e le invocazioni d'aiuto continuano e l'effetto che se ne prova è deleterio per l'anima: è come sentirsi struggere il cuore».       

«Intanto cominciano ad arrivare i primi soccorritori da Lubiana e le autoambulanze cominciano il carosello del va e vieni. Vedo degli operai intenti a lavorare con la fiamma ossidrica per tagliare le lamiere di un vagone ridotto come un mantice. Viene estratta una donna di mezza età con le gambe letteralmente tagliate e un uomo abbastanza giovane già morto. Tutte queste scene di raccapriccio mi inebetiscono perché sto pensando che sono distante da casa e dai miei cari e che pure io potevo ritrovarmi già cadavere. Vorrei piangere come tanti altri che lo fanno e pregano, ma non so cominciare. L'opera di soccorso si fa più febbrile. Arrivano i tecnici per la prima inchiesta che dovrà spiegare la dinamica dell'incidente: è stato un deragliamento per eccesso di velocità. Io e gli altri scampati veniamo radunati davanti alla piccola stazione. Cercano di confortarci e ci domandano se abbiamo danni da segnalare. Siamo tutti mesti e addolorati e nessuno ha voglia di commentare anche se ce la siamo cavata con tanto spavento. Il nostro pensiero va verso i morti e i feriti. Dopo un po' di tempo giungono autobus che ci trasportano alla stazione di Lubiana. Da qui, dopo una mezz'ora di sosta, si riparte in treno alla volta di Zagabria. Mi trattengo alcuni giorni in questa città e, confesso, non vedo l'ora di ritornare a casa, perché il ricordo di quanto accaduto ha contribuito a rattristarmi assai. Ancora ringrazio Dio. È un brutto ricordo che non dimenticherò mai».

E con questo ricordo si conclude la rievocazione della vita di quest'uomo dalle doti medianiche straordinarie, che visse sempre modestamente traendo i mezzi di sussistenza dal proprio onesto lavoro, che si prestò di buon grado a sottomersi alla trance affinché altri – non lui – potessero sperimentare fenomeni di rilievo, che non trasse mai alcun vantaggio né economico né di fama dalle risorse di cui era dotato, ma anzi dovette subire l'ostilità – se non proprio la persecuzione – delle autorità dell'epoca e di una parte dell'opinione pubblica del paese in cui viveva. Urbino Fontanelli fu una persona semplice, di animo sensibile e buono, che si dedicò con pazienza ed umiltà ai compiti che la vita gli aveva assegnato, rifuggendo fino alla morte da qualsiasi forma di pubblicità e di notorietà. Ed anche per questo la sua vita merita di essere ricordata.


 

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