Storia di un medium italiano: prima parte |
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L'ambiente e l'epoca Verso la fine del 1936, Silvio Ravaldini (nato a Genova nel dicembre 1925) viveva a Castelfiorentino – con la mamma Iole Franchi ed il fratellino Italo, nato nel 1933 – in un grande appartamento che occupa ancor oggi il primo piano di una vecchia casa in Piazza del Popolo, nel centro storico del paese. Il padre di Ravaldini era morto nel 1933, un mese prima della nascita del figlio Italo, e la mamma, rimasta vedova, abitava in quella casa con il fratello, Gino Franchi, e la sorella Amalia. Con Amalia, Gino e Iole viveva anche la madre Emilia (nonna materna di Ravaldini), il cui marito era morto nel 1935. Lo zio Gino era sposato ed aveva un figlio, Vinicio, nato nel 1927, che viveva con lui: in quel periodo era separato dalla moglie, con la quale si ricongiunse nel 1939. Ecco quanto Ravaldini ha raccontato dei suoi nonni materni all’inizio di Realtà e Mistero: «In quel tempo (alla fine dell’800) i miei nonni materni erano da poco sposati. Lui insegnante elementare, lei donna di casa. Essi trascorrevano la loro vita quotidiana in semplicità e con pochissime esigenze. Allora si viveva in maniera molto diversa da oggi. Pochi avevano il necessario e l'agiatezza era un raro privilegio. Lo stipendio di maestro di scuola permetteva appena di provvedere ai bisogni della famiglia, che ben presto si arricchì di numerosi figli. Conseguentemente ogni pensiero dei miei nonni era dedicato quasi esclusivamente alla cura della casa, al mantenimento e all'educazione dei figli. Questi, quando furono grandicelli, coadiuvarono il padre durante la scuola serale, creata per recuperare gli analfabeti che allora abbondavano, specialmente nelle campagne. Tuttavia il nonno — grazie al posto che occupava nella società di allora — aveva contatti con qualche persona colta e s'interessava e discuteva volentieri di un particolare argomento: lo spiritismo e la sopravvivenza». La nonna Emilia aveva qualche facoltà paranormale, anche se non molto sviluppata. Ravaldini cita alcuni episodi, che gli furono narrati dalla nonna stessa, tra cui il seguente, interessante per l'oggettività del riscontro: «Una sera, la nonna, recandosi in camera da letto per allattare le ultime due nate, due gemelle, al suo ingresso nella stanza udì distintamente un arpeggio di chitarra della durata di alcuni secondi. In quella camera non si trovava alcuna chitarra; il nonno era uscito e gli altri figli, in tenera età, già dormivano. Il fenomeno si ripeté le sere successive e con le stesse condizioni ambientali (il nonno usciva sempre dopo cena), tanto che la donna, un po' turbata dallo strano fenomeno, volle che suo marito si rendesse conto del fatto. Così anche lui udì l'arpeggio dell'invisibile chitarra; non solo, ma desiderò che assistesse una terza persona. Spiegò il fatto ad un amico e lo condusse a casa sua. Tre persone entrarono nella camera da letto, l'arpeggio si ripeté e tutti l'udirono perfettamente. Particolarità del fenomeno era che esso si produceva pochi istanti dopo l'ingresso della nonna nella camera e sempre in uno stesso angolo. L'amico formulò ad alta voce una richiesta, pronunciando queste parole come rivolte a qualcuno: "Ripetetelo dall'altra parte". E subito l'arpeggio fu udito nell'angolo opposto a quello in cui prima si era fatto sentire. Dopo la sera in cui vi era stata la presenza del terzo testimone, il fenomeno cessò completamente». L’interesse del nonno per lo spiritismo si era trasmesso a suo figlio Gino Franchi (che nel 1936 aveva 45 anni), il quale aveva frequentato occasionalmente un sensitivo di Firenze dotato di scrittura automatica. Quanto all’ambiente del paese di Castelfiorentino ed alla vita familiare, ecco come li descriveva Ravaldini nel suo libro: «Un piccolo paese di provincia, prevalentemente agricolo prima dell'ultimo conflitto bellico. Ora il benessere lo ha completamente mutato, ma le persone che vi abitavano e vi abitano — se si esclude un diverso atteggiamento da parte delle nuove generazioni — sono rimaste approssimativamente quelle di ieri, con le loro mentalità ed i loro pregiudizi… La gente allora era molto assorbita dalle vicende della vita quotidiana, soprattutto perché l'esistenza era dura e doveva essere affrontata in maniera completamente diversa da oggi. Il livello culturale della quasi totalità degli abitanti era elementare. Anche quello nostro e degli amici era rimasto a livello di scuola media. La vita dello zio si svolgeva esclusivamente nell'ambiente familiare. In quel tempo era senza lavoro (in seguito lavorò come direttore amministrativo presso la locale distilleria), perciò ci portava spesso in campagna: erano passeggiate che per noi bambini rappresentavano la cosa più bella. La sera, poi, quando non venivano gli amici si dedicava a qualche lettura. Quando eravamo più piccoli ci aveva incantato con il racconto di fiabe piene di maghi, di fate, di streghe: racconto che, data la complessità, si protraeva per diverse sere specialmente d'inverno, al caldo del fuoco che crepitava nel camino di un grande focolare. Delle sue due sorelle conviventi in famiglia, una era impiegata (la zia Amalia); l'altra, mia madre, cucinava e accudiva alle faccende domestiche. Il lavoro, la casa, i bambini davano molto da fare, ma tutti i vari compiti erano eseguiti con attaccamento e con amore per il bene comune. Così l'armonia non mancava». Un garzone di bottega In paese un cugino di Gino Franchi, Paolo Chesi, aveva una bottega di barbiere, nella quale, all'inizio degli anni trenta, lavoravano come apprendisti (garzoni, come allora si diceva), due giovanotti del luogo: Urbino Fontanelli e Severino Chesi (un altro cugino di Gino Franchi). Tra i due coetanei (nati nel 1913) c’era affiatamento e buona armonia: erano di umore gioviale, piuttosto estroversi e di carattere allegro. Gino Franchi frequentava spesso la bottega, per tagliarsi i capelli o per fare quattro chiacchiere, e così tra lui ed i giovani si instaurò un rapporto di simpatia, che col tempo divenne, nei confronti di Urbino, un sentimento di amicizia fraterna, nonostante la differenza di età: Urbino considerava Gino Franchi quasi come un secondo padre. Nel 1933 Urbino Fontanelli aveva fatto da padrino al battesimo di Italo, il fratellino di Silvio Ravaldini, ed i rapporti della famiglia Franchi con Urbino erano divenuti molto cordiali nel periodo precedente la morte del padre di Franchi. Infatti il giovane veniva a casa Franchi quasi tutti i giorni per fare la barba al nonno, il quale – essendo paralizzato – doveva essere accudito in ogni cosa. In queste circostanze il giovane finì con l'essere considerato come uno della famiglia. Era simpatico, servizievole, e si faceva benvolere. Fontanelli viveva con i genitori in una casa sita nell'attuale Piazza Gramsci. Suo padre, muratore di mestiere, era un uomo alto e robusto, di poche parole e di pochi interessi. La madre Leontina ebbe invece un ruolo attivo negli eventi che seguirono. Man mano che, con la conoscenza e la frequentazione, l'amicizia tra Gino Franchi, Urbino ed il suo collega Severino andava crescendo, uno degli argomenti che spesso venivano affrontati nelle loro discussioni riguardava i fenomeni dello spiritismo, ai quali Gino Franchi era particolarmente interessato. Nel 1935 era uscita una pubblicazione dalla casa editrice Nerbini di Firenze, intitolata Spiritismo, in cui si elencavano i vari fenomeni dello spiritismo classico, e lo zio Gino ne era venuto in possesso (per inciso, l’autore del libro, Fernando Ruggeri, ne ripubblicò nel 1956 un’edizione aggiornata dal titolo Spiritismo antico e moderno sotto lo pseudonimo inglese di William Sherpes). Così, durante le conversazioni, di fronte alla narrazione fatta da Gino Franchi dei fenomeni straordinari di cui si parlava in quel libro, i due giovani erano perplessi, e nello stesso tempo incuriositi: per farla breve, si appassionarono all'argomento. Curiosità e voglia di provare In una conversazione registrata su nastro nel 1973, durante un incontro tra vecchi amici, Urbino Fontanelli e Severino Chesi rievocano quel periodo, e riconoscono che l'interesse e la curiosità per quei fenomeni furono stimolati dalle frequenti conversazioni con Gino Franchi. Urbino in particolare dice di essersi sentito, ad un certo punto, sinceramente attratto dall'idea di poter fare qualche esperimento. Essi vollero tentare qualche prova, non con l'intento di burlarsi di Gino Franchi (come qualcuno potrebbe sospettare, trattandosi di due giovani amici coinvolti da una persona più anziana e seria in argomenti così fuori dell'ordinario) ma perché davvero affascinati dalla possibilità che quei fenomeni potessero verificarsi. Si deve tenere anche presente l'affetto sincero che legava Fontanelli a Gino Franchi. In una conversazione (anche questa registrata) del 1978, Urbino dichiara testualmente che lui andava molto volentieri a quei primi tentativi di sedute che ebbero luogo in casa Franchi: ci si sentiva proprio attirato, ed aveva dentro di sé la sensazione, più che la speranza, che qualcosa sarebbe accaduto. Dunque senza un piano premeditato ma per un'istintiva curiosità da parte di tutti, e per un'inclinazione naturale sia da parte di Gino Franchi, che probabilmente aveva ereditato dalla madre una predisposizione latente e dal padre un interesse esplicito verso i fenomeni paranormali, sia da parte di Urbino Fontanelli, la cui medianità potenziale doveva esercitare un certo richiamo psichico, nel 1937 si cominciarono a tenere in casa Franchi delle riunioni a carattere familiare, nelle quali i partecipanti provavano ad ottenere qualcuno dei fenomeni di cui si parlava nella letteratura spiritica. Va precisato però che il modo in cui gli amici si ritrovavano, la sera, era molto informale, e si fondava soprattutto sul piacere dell'intrattenersi amichevolmente insieme: prima di mettersi al tavolino, Gino Franchi suonava la chitarra, Urbino Fontanelli il mandolino, e Severino Chesi cantava stornelli. Insomma, tipiche serate familiari di allora. I primi tentativi Silvio Ravaldini e suo cugino Vinicio Franchi assistettero a qualcuna delle riunioni iniziali, di breve durata, nelle quali non successe niente di straordinario. Ecco cosa riferiva in proposito Ravaldini (che all'epoca dei fatti aveva 11 anni): «Mi è rimasta vivida nella memoria una di quelle sere. La stanza era lievemente rischiarata da una lampada fasciata con carta rossa. Dopo poco tempo gli occhi si abituavano a quello strano chiarore, tanto che si potevano scorgere nitidamente le persone disposte attorno ad un piccolo tavolo porta-vasi a tre gambe, leggerissimo, alto circa 80 centimetri e con un piano quadrato di circa 30 centimetri di lato. Sopra quello i convenuti ponevano le mani, con le palme che appena sfioravano il legno. Il silenzio era profondo ed io, ingenuamente, attendevo un segno che dimostrasse come gli spiriti avessero veramente voglia di manifestarsi. Stavo seduto su una sedia, un po' in disparte, e così pure la nonna. Ma non ricordo altro che avesse colpito la mia attenzione o la mia fantasia, forse a causa del sonno». Dopo qualche riunione però gli adulti decisero che era più opportuno che i bambini non assistessero alle sedute, per cui queste iniziavano quando i bambini erano già a letto. La camera da letto, tuttavia, era in comunicazione diretta con la stanza in cui si svolgevano le sedute attraverso due porte che davano sullo stesso corridoio, una di fronte all'altra. Le porte restavano sempre aperte perché la madre di Silvio, che partecipava alle sedute, doveva sentire se il bambino piccolo piangeva o se aveva bisogno di qualcosa.
Le fonti di informazione In seguito, nel corso del 1939, il 14enne Silvio Ravaldini fu ammesso ad assistere alle sedute, e da allora fino al 1952 fu testimone diretto di tutti i fenomeni che si verificarono. Per quanto riguarda il periodo precedente il 1939, le fonti di informazione di cui ho potuto disporre sono state le seguenti:
I partecipanti alle prime riunioni erano Gino Franchi, le sue sorelle Iole ed Amalia, Urbino Fontanelli e Severino Chesi. La nonna Emilia partecipava a volte direttamente, ponendosi al tavolo in catena, ed a volte come spettatrice. Queste cinque o sei persone mettevano le mani con le palme sul tavolino portavasi, ed attendevano. Dopo qualche seduta si aggiunse al gruppo la madre di Urbino, Leontina, che da allora divenne un'assidua frequentatrice. È importante notare come l'ambiente familiare, l'atmosfera di serenità e di fiducia che vi regnava, ed anche, sotto un certo profilo, la semplicità di coloro che partecipavano a questi tentativi, fossero tali da non far ritenere plausibile l'ipotesi di trucchi, imbrogli o raggiri da parte di qualcuno ai danni degli altri. Ed anche l'ipotesi dello scherzo o dell'esibizione domestica di abilità da prestigiatore non regge, perché uno scherzo viene prima o poi smascherato o rivelato, affinché ci si possa ridere sopra, e non va certo avanti per più di quindici anni. Ma, come vedremo, sono proprio la complessità ed il carattere straordinario dei fenomeni che successivamente si produssero, oltre alla pluralità dei testimoni presenti, a far escludere qualsiasi ipotesi di trucco, una volta accettata la validità delle testimonianze. I fenomeni iniziali In merito ai primi fenomeni, cito ancora il libro di Ravaldini: «Dopo alcune riunioni il tavolino porta-vasi cominciò a muoversi ondeggiando ed in seguito levitava ad altezze di un metro ed oltre dal pavimento, lasciando sbigottiti i partecipanti alle sedute, che non si aspettavano tanto. Talvolta si sollevava così in alto che non era possibile continuare ad appoggiare le mani sul piano, neppure ponendosi in piedi e alzando le braccia. Col passare delle sere, dopo iniziali scricchiolii e piccoli colpi isolati, iniziò il fenomeno della tiptologia. In principio nessuno immaginava chi possedesse la facoltà medianica atta a produrre il fenomeno tiptologico e quello della levitazione». I familiari di Ravaldini videro il tavolino volteggiare per aria, sottraendosi a qualsiasi contatto, e questo non nell'oscurità, ma in luce rossa: «Dopo l'inizio di una seduta in cui i partecipanti sono disposti attorno al piccolo tavolo, questo si solleva verticalmente fino al di sopra delle loro teste, spostandosi in varie direzioni per quasi tutta l'ampiezza della stanza. Poi torna al suo posto. È accesa, come al solito, una lampada schermata di rosso». Tutti restarono strabiliati per il fenomeno, perché nessuno si attendeva qualcosa del genere. Tuttavia, a parte la meraviglia, lo accettarono senza porsi troppe domande, dato che fin dall'inizio nutrivano fiducia nelle manifestazioni spiritiche. La scoperta delle facoltà medianiche di Urbino Fontanelli Dopo un po' venne ammessa alle sedute anche Iolanda Chesi, sorella di Severino, ed in seguito parteciparono altri due cugini di Gino Franchi, Luciano e Pietro Chesi, e la moglie di quest'ultimo. Durante queste sedute Urbino Fontanelli cominciò ad avvertire una certa sonnolenza, che stupiva gli altri partecipanti, i quali, eccitati per quanto accadeva, non riuscivano a credere che qualcuno potesse indulgere al sonno in circostanze così straordinarie, per quanto stanco potesse essere. Gino Franchi riprendeva affettuosamente l'amico, al quale chiedeva di comportarsi con maggior rispetto nei confronti di manifestazioni alle quali tutti attribuivano grande importanza. Eppure l’interesse di Fontanelli per le sedute non diminuiva, anzi aumentava sempre, tanto che si dimostrava quasi ansioso di partecipare, come se un'esigenza interiore ve lo spingesse. Ad un certo punto fu chiaro che il medium era proprio lui, e l'iniziale sonnolenza andò rapidamente evolvendosi verso una trance profonda. Nel periodo iniziale, quello della levitazione e della tiptologia, fino ai primi fenomeni di scrittura diretta, le sedute erano frequenti, anche due nello stesso giorno, una subito dopo pranzo e l'altra la sera. Tuttavia, quando si tenevano le sedute pomeridiane, qualcuno portava sempre i bambini fuori in passeggiata, per evitare che assistessero a quanto accadeva. Ravaldini stimava che nell'autunno del 1937 si fossero già tenute più di un centinaio di sedute, il che testimonia un interesse ben vivo da parte di tutti i partecipanti. Infatti, al di là dei fenomeni di levitazione, attraverso la tiptologia si era resa disponibile una forma di comunicazione intelligente con entità che tutti i partecipanti riconoscevano come spiriti. Per tornare al medium, ecco in quali termini Fontanelli si esprimeva sulla propria trance nella conversazione registrata nel 1978: «Piano piano io non sentivo più niente, poi mi raccontavano che erano accadute delle cose… mi dicevano: "Ma che fai? Ti addormenti? Chini la testa? Ma queste son cose, invece, che bisogna stare…" Io mi sentivo la sonnolenza, come un addormentarsi, come cadere su di me una cappa di piombo, e da lì in poi non ricordavo più niente, e poi me lo dicevan loro quello che era avvenuto. Niente sofferenza, neanche per idea! Quando mi svegliavano da queste sedute, vorrei dire che mi sentivo ancora meglio, mi sentivo come più leggero, ecco: e allora domandavo subito a loro quello che c'era stato, e loro mi dicevano tutto, dall'a alla zeta. E niente sofferenza, sofferenze non ne ho mai avute in questi casi: nulla, neanche un dolor di testa. Anzi se qualche volta… io mi ricordo, una seduta, che io ero fioco, sai con la voce abbassata, e mi ricordo, quando mi svegliai, io non ero più fioco. Mi sembravano cose in un primo tempo quasi incredibili… ma come, dicevo, ma può darsi che io m'addormento, sogno, mesticolo (vernacolare per gesticolo) fra me, dico qualche cosa… invece: “No no, guarda, è venuto questo, è successo questo"; cose neanche mai pensate lontanamente. Quando mi accorgevo che io andavo in trance, se per esempio avevo un moto di dire: "No, non voglio andare, no!", non andavo, assolutamente no! Poi mi riprendeva questa specie… io la chiamo cappa di piombo, per spiegarmi così… che mi ricordava, allora… e rifacevo no, no… e poi, zac, finivo per andare in trance, definitivamente». Lo stato di trance Ecco alcune testimonianze sulle prime trance del medium, tratte da Realtà e Mistero: «I fenomeni assunsero ben presto aspetti e modalità di estrinsecazione superiori ad ogni aspettativa, e il medium, in stato di semitrance o trance, talvolta levitava e in quelle condizioni si spostava. Una sera mia madre e mia zia cercarono di contrastare quanto accadeva. Posero il medium fra di loro e lo tennero stretto per le braccia, affinché non fosse portato via, come esse dicevano. Ma inutili risultarono gli sforzi delle due donne. Il medium, forse in uno stato di trance incipiente — perché il suo corpo presentava una certa rigidità — sgusciò via come se una forza potente lo traesse verso il basso, quindi scivolò completamente sotto la tavola fino a disporsi orizzontalmente. I presenti dissero che non sembrava adagiato sul pavimento, ma era come se galleggiasse nell'aria. Poi ricomparve con la testa da uno dei lati più stretti della tavola (dove non si trovava nessun altro); a poco a poco tutto il corpo uscì da sotto la tavola e si pose in piedi, ma barcollava, e si diresse verso la porta che immetteva in un corridoio. La luce rossa accesa permetteva di vedere tutto e fino a quel momento i partecipanti avevano assistito passivamente e piuttosto sbigottiti. Ad un tratto, però, lo zio ebbe timore che il medium cadesse. Si alzò di scatto, andò da lui, lo sorresse, lo condusse al suo posto e lo rimise a sedere sulla sedia. Si vedeva benissimo che il medium era in uno stato anormale, perché anche chiamandolo per nome e ponendogli delle domande rispondeva in maniera confusa. Il medium, in relazione al fenomeno di quella sera, disse che prima di essere trascinato sotto la tavola gli era parso che il piano della tavola stessa fosse animato e si comportasse come un'onda (e non era la prima volta che provava tale sensazione). Poi aveva avvertito come se gli calasse addosso una cappa di piombo, come se la pressione del suo corpo si abbassasse improvvisamente, a tal punto da sentirsi svenire». Levitazioni di rilievo La tavola di cui si parla in questo brano non è più, come si comprende, il tavolino porta-vasi che veniva utilizzato nelle prime sedute, ma un grande tavolo di legno massiccio, delle dimensioni di 2 x 0,80 metri, costruito dal padre di Ravaldini, che di mestiere era stato falegname. A proposito dei fenomeni di levitazione, ecco cosa avvenne con questa tavola: «Ad una seduta fu invitato il padre del medium, al quale era stato spiegato quanto accadeva con la medianità di suo figlio. Egli venne, ma temeva — raccontò poi — che i fenomeni non fossero del tutto genuini e che i presenti vi contribuissero in buona parte. Così, posto anch'egli a sedere attorno alla grande tavola, cercò di impedire il verificarsi di quanto succedeva. La tavola aveva quattro robuste gambe. Ora, una sola cominciò a sollevarsi ed abbassarsi scandendo colpi sul pavimento. Il nuovo partecipante si trovava proprio vicino a quella e impiegò tutta la sua forza di uomo alto e robusto quale era, premendo sull'angolo della tavola. Ma a nulla valsero i suoi sforzi, perché soltanto quella gamba continuò a battere colpi sul pavimento, abbassandosi e sollevandosi come se nessuno avesse cercato di ostacolarla». L’altro fenomeno di rilievo di questo periodo iniziale è costituito dalle comunicazioni tiptologiche. Ecco cosa scriveva Ravaldini in merito ai colpi: «Questi colpi, o raps, scanditi a brevissima distanza l'uno dall'altro, potevano udirsi in ogni luogo dell'ambiente in cui il medium si trovava, ma di solito si percepivano molto vicini a lui, a livello del pavimento, ed erano intelligenti... variavano di intensità. Attraverso una gamma molto estesa, dai cupi si andava gradatamente agli acuti, da quelli quasi impercettibili all'orecchio si passava ai più forti, perfettamente udibili. Ogni serie di colpi aveva alcune caratteristiche che la diversificavano dalle altre, sia per la battuta, sia per le pause. E qui devo dire che bisognerebbe aver direttamente e attentamente ascoltato la tiptologia prodottasi col nostro medium per rendersi conto delle particolari modalità con cui si presentava. Ogni fenomeno paranormale, infatti, deve essere soggettivamente sperimentato per essere compreso nei suoi molteplici aspetti. Durante le prime sedute, i colpi sembravano sempre scanditi da un'unica intelligenza, anche se in sottofondo, in sordina, se ne udivano altri, i quali però non disturbavano affatto la comunicazione principale. Ma in seguito, quando avvennero altri fenomeni, le comunicazioni tiptologiche erano multiple e contemporanee. Di solito questi colpi si limitavano a compitare un nome di persona, talvolta seguito da un cognome, oppure formavano una brevissima frase di saluto; ma soprattutto tendevano ad instaurare un dialogo con i partecipanti». Si tenga presente che il fenomeno dei raps accompagnò tutta la fenomenologia medianica prodotta da Fontanelli, dunque Ravaldini ne fu testimone diretto per tanti anni. Ecco perché affermava: «Bisognerebbe aver direttamente e attentamente ascoltato la tiptologia prodottasi col nostro medium». Le comunicazioni tiptologiche avvenivano col solito sistema della corrispondenza tra il numero dei colpi e la relativa lettera dell'alfabeto. Per quanto laborioso, il sistema permette una forma di dialogo, sia pure per frasi brevi, aiutato dal sistema delle domande e conferme, come spiegava Ravaldini: «Qui devo aggiungere che seguire e trascrivere le comunicazioni tiptologiche era un lavoro da certosini, perché occorreva molta pazienza ed attenzione, anche se talvolta le parole o le frasi venivano completate a senso dai presenti e poi convalidate dalle entità. Per la seduta che ho parzialmente descritto, ad esempio, venivano compitate le lettere fino a formare le frasi in questo modo: "Fede in D...", al che gli assistenti chiedevano: "Fede in Dio?". E la risposta confermava. "Non toc...". L'avvertimento era già stato dato in precedenza, quindi non era difficile completare: "Non toccate il medium?". E la risposta convalidava. Sempre a proposito di tiptologia, desidero precisare che per convenzione il sì corrispondeva ad un colpo, il no a due colpi. Va notato che le entità battevano due rapidi colpi anche quando volevano attirare l'attenzione dei presenti, in maniera da far capire che stava per iniziare una comunicazione o per proseguirne una non ancora terminata». Comunicazioni tiptologiche Il periodo delle comunicazioni esclusivamente tiptologiche durò almeno fino al gennaio del 1938, ma si protrasse poi, anche se sporadicamente, fino alla fine di quel ciclo di esperienze medianiche. Nel corso delle sedute di questo primo periodo che, come si è detto, furono numerose, si manifestarono, oltre a svariate entità, le prime guide, che si facevano chiamare Marzo Veritieri e Amato Cellini. Cito ancora il libro di Ravaldini: «Dopo le prime indecifrabili comunicazioni tiptologiche, si manifestò chiaramente una ben distinta personalità. Questa, con colpi ben scanditi, disse di essere la guida del medium e degli amici che si riunivano. Si presentò con un nome: Marzo Veritieri. Tale personalità, fin dall'inizio e per tutto il tempo in cui si manifestò, faceva sempre precedere la sua presenza da un segnale di riconoscimento: tre colpi a breve distanza l'uno dall'altro, seguiti da un quarto dopo una pausa. Disse che quel segnale non poteva essere riprodotto da nessun'altra entità, perché era, pur nella sua semplicità, un qualche cosa di esclusivo che con quel medium soltanto lui poteva trasmettere. Ciò aveva lo scopo, disse in seguito, di assicurare gli amici che lui era presente, che operava, che controllava tutto e quindi nessun timore dovevano avere gli assistenti per quanto sarebbe accaduto». Affluenza di pubblico Quanto ai partecipanti alle sedute, già alla fine dell’anno 1937 al circolo familiare cominciarono ad aggiungersi amici, ed amici degli amici: «In principio nessun estraneo fu ammesso alle riunioni, e niente di quanto succedeva trapelò all'esterno. Ma quando i fenomeni assunsero più ampie proporzioni, la riservatezza a poco a poco svanì. Quanto stava accadendo si poneva troppo al di fuori della realtà, era tanto più grande dei miei che non poteva più essere contenuto nell'ambiente familiare, e col passare del tempo altre persone parteciparono alle sedute. Colui che era stato accolto condusse un proprio familiare oppure un conoscente. Ed un controllo vero e proprio non fu mai esercitato, anche perché spesso qualche nuovo partecipante era annunciato all'ultimo momento ed il ricusarlo sembrava troppa scortesia. Per un periodo di alcuni mesi fu una vera e propria processione di gente in casa nostra, tanto che avemmo sedute a cui assistevano persino 20 persone». Vedremo più avanti le spiacevoli conseguenze, anche per il medium, di questa affluenza di pubblico non selezionato (e in nessun caso pagante). Nella registrazione del 1973 Urbino Fontanelli, Luciano e Severino Chesi sostenevano però che, a loro parere, era un bene diffondere il più possibile quella che per loro era un'autentica rivelazione, una vera fede, e dunque non sarebbe stato giusto impedire di assistere alle sedute a chi ne manifestava il desiderio. E questo fatto, unito al disinteresse del medium e dei familiari di Ravaldini, a mio avviso rappresenta un'ulteriore conferma della buona fede di tutti i partecipanti e della genuinità dei fenomeni.
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