La dettatura di un romanzo medianico |
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Un romanzo dettato a voce diretta Come si è detto, dopo il verbale della seduta del 19 febbraio 1939 i quaderni degli appunti non si interrompono, ma continuano a registrare, a volte con la data ma più spesso senza, i frammenti del romanzo Gocce di Rugiada che l'entità Boccacci iniziò a dettare presumibilmente nel dicembre del 1939, e la cui dettatura si protrasse, seduta dopo seduta, per circa un anno. La caratteristica principale di questo romanzo, rimasto incompiuto a causa della partenza del medium per la guerra, consiste nel fatto che le parti che venivano via via dettate non sempre erano consecutive: accadeva talora che il Boccacci iniziasse a narrare una parte completamente nuova, senza alcun nesso apparente con quanto aveva dettato nella seduta precedente, ed andasse avanti anche per due o tre sedute, per poi interrompere la narrazione e ricollegarsi a qualche punto lasciato precedentemente in sospeso, o iniziare un nuovo capitolo. I vari frammenti del romanzo furono poi ricomposti da Ravaldini: nonostante le lacune, la trama del romanzo risulta piuttosto chiara, e le varie parti unitarie, soprattutto i capitoli della parte iniziale, sono coerenti tanto nello stile quanto nella struttura narrativa. Dunque l'impressione finale è quella di essere in presenza di un'opera – ideata e costruita da parte di uno scrittore dilettante di discreto livello – la cui trama risulta movimentata ed a tratti avvincente, pur nella sua ingenuità. Le poche date presenti negli appunti dimostrano bene la frammentazione del racconto ed il modo in cui le varie parti vennero dettate alla rinfusa, dato che alcuni frammenti dettati nel novembre 1940 vanno logicamente collocati prima di pezzi dettati nel luglio o nel settembre dello stesso anno. Lo svolgimento delle sedute, in quel periodo, era quasi completamente occupato dalla dettatura del romanzo, impresa tutt'altro che semplice, nonostante la dizione molto chiara e la voce ferma dell'entità. Le sedute iniziavano e terminavano con il saluto della guida Luciano, la quale lasciava quasi subito la scena al Boccacci, che iniziava a dettare. Ecco la descrizione (tratta da Realtà e Mistero) che ne diede Ravaldini, il quale dal 1939 prese parte di persona alle sedute: l'entità Boccacci è chiamata semplicemente lo Scrittore. «Molte furono le sedute medianiche a cui partecipai, e tutte interessanti per certe loro particolari caratteristiche. Però quelle in cui lo Scrittore ci dettò molte pagine del suo lavoro inedito sono rimaste vivide nel ricordo, anche perché il loro svolgimento era diverso dalle altre. All'inizio si manifestava Luciano, che salutava i presenti e poi, salvo qualche altra breve comunicazione a voce diretta, lo Scrittore iniziava quasi sempre con questa frase: "Possa lo Dio darvi quella certa luce, messeri e monne"... Subito dopo questo saluto continuava Luciano, il quale invitava a chiudere i veli (le tende) e ad accendere la lucerna. Questa, per la verità, era soltanto una candela che veniva posta sul piccolo tavolo al quale sedeva lo zio, affinché un po' di luce permettesse di scrivere quanto sarebbe stato dettato. Ed ecco che dopo aver tutto predisposto, la voce dello Scrittore si rivolgeva allo zio dicendo: "Messere, ferma", cioè invitandolo a scrivere». «Il dettato accentuava ancora di più la particolare caratteristica di quel linguaggio d'altri tempi, che era perfettamente in armonia col consueto modo di parlare dello Scrittore: sia per i vocaboli usati, sia per la costruzione dei periodi. Infatti, le espressioni che usava nel narrarci episodi della sua vita, si ritrovavano poi nelle descrizioni e nei dialoghi della sua opera. Non solo, ma nello stesso tempo quel linguaggio si rivelava appartenente ad una persona colta, aristocratica direi. Le parole che pronunciava in quello stile tutto particolare, il discorso che fluiva sempre chiaro, elegante ed armonioso, ci teneva avvinti, ed eravamo veramente dispiaciuti quando, a fine seduta, ci faceva capire che per quella sera tutto era terminato. Il suo modo di dettare, con una dizione che non esito a definire perfetta, era calmo, intervallato da pause abbastanza lunghe, forse considerando che quei vocaboli e la costruzione di certi periodi non erano più rispondenti al nostro attuale linguaggio. Altre piccole difficoltà erano rappresentate da parole tronche, da articoli apostrofati nell'uno o nell'altro modo, da vocaboli sconosciuti. Quando lo zio si trovava di fronte ad una parola che non aveva ben compreso, pregava lo Scrittore di ripetere, ed egli, oltre ad acconsentire alla richiesta pronunciando lentamente il vocabolo, scandiva poi ad una ad una le consonanti e le vocali che lo componevano: "Messere, la s, la g, la a...". Ogni tanto, magari dopo che erano stati scritti alcuni periodi di seguito, lo Scrittore si interrompeva e, dopo una pausa, come se volesse riesaminare, ricontrollare quanto già scritto, o forse per poter meglio ricostruire gli episodi che narrava, si rivolgeva allo zio dicendo: "Messere, non arricòrdami. Favella in sopra". A questo punto lo zio rileggeva l'ultimo periodo scritto, che talvolta aveva bisogno di qualche correzione, e ciò sembrava servisse in qualche modo, perché poi il dettato continuava senza alcun intoppo». «Le sedute di allora non erano più quelle di una volta. Le due o tre ore di manifestazioni appartenevano ormai al passato. Le riunioni avevano la durata di un'ora, un'ora e un quarto, non di più. Quando il tempo scadeva e forse Luciano faceva capire allo Scrittore che per non recare alcun disturbo al ragazzo era necessario porre termine alla seduta, egli, in maniera molto elegante e con tanta gentilezza, diceva: "Messere, non arricòrdami". E proseguiva dicendo che avremmo potuto continuare a scrivere quella prosa nel corso della prossima riunione. Talvolta, all'inizio della seduta, invitava lo zio a rileggere il periodo terminale del brano dettato nella seduta precedente, per riallacciarvisi e proseguire oltre; oppure ci faceva conoscere episodi a sé stanti, che potevano o no essere collegati con quanto era già stato scritto. In principio le frammentazioni risultarono numerosissime. Successivamente i vari brani cominciarono ad essere collegati fra loro. Naturalmente tutti i legamenti che facevamo in sede di riassetto e copiatura erano poi sottoposti all'entità per l'approvazione, specialmente nel primo periodo di questo ciclo di dettati, perché poi, quando le sedute diradarono a causa dell'assenza del medium, il lavoro di messa a punto definitivo lo facemmo noi». «Per quanto riguarda le modalità di estrinsecazione del fenomeno, posso dire che durante tutto il dettato la voce si udiva sempre vicinissima alle tende chiuse, come se dietro le stesse fosse un uomo in carne ed ossa, in piedi, di altezza superiore alla media, perché la voce si udiva in un punto nel quale si poteva ipoteticamente localizzare la bocca dell'invisibile interlocutore. E la voce era talmente vicina alla tenda che questa ondeggiava leggermente nel punto in cui era colpita dalla vibrazione sonora. Non ho la sicurezza che questa prosa sia uguale all'originale scritta dall'Autore, anche perché se alcune parti dell'opera furono approvate (e talvolta corrette) dall'entità, molte rimasero senza controllo. Inoltre occorre considerare che il controllo era attuato soltanto foneticamente, e qualche vocabolo – come ad esempio gli e li, quegli e quelli, assai ito e assa'ito – poteva essere confuso e quindi risultare errato nella scrittura. D'altra parte, per poter procedere ad un esame dettagliato e correggere gli errori, occorrerebbero profonde conoscenze nel campo specifico». Ambiguità del linguaggio del romanzo La descrizione di Ravaldini è davvero efficace, e ci fa quasi rivivere la scena. Va ricordato che all'epoca in cui venne scritto Realtà e Mistero (prima metà degli anni '80) non era ancora stata eseguita alcuna indagine in merito allo stile ed al linguaggio del romanzo Gocce di Rugiada: come si è detto, i partecipanti alle sedute erano convinti che l'autore dell'opera fosse Boccacci, ed anche Ravaldini, pur dubitando dell'attribuzione della novella al Boccaccio, riteneva che lo Scrittore fosse un'entità vissuta più o meno nel Trecento. La questione fu ulteriormente approfondita dallo stesso Ravaldini in un suo articolo pubblicato nel fascicolo 4 del 2000 di Luce e Ombra, dal quale ho stralciato le osservazioni che seguono. «Il nostro bagaglio culturale dell'epoca non poteva permetterci, nella maniera più assoluta, anche se avessimo inconsapevolmente fatto emergere l'inconscio, di imbastire una novella così articolata, in un linguaggio troppo al di fuori del comune, perché privi di conoscenze (stilistiche, filologiche e storiche) della lingua italiana; e inserendovi dati storici a noi completamente ignoti. Non solo, ma creare anche personaggi che si inseriscono e si ambientano armonicamente nei luoghi in cui si svolgono le zuffe di una tormentata Toscana medioevale. Inoltre è da rilevare che da tutto l'insieme di questo particolare fenomeno, già di per sé notevole nell'eccezionalità del complesso dei fatti verificatisi, risulta invece inequivocabile l'autonomia della personalità medianica manifestatasi, anche se da molti è ritenuta impossibile. Quella prosa, da qualunque parte vogliamo esaminarla o interpretarla è indubbiamente da considerarsi creazione letteraria, quindi un'arte: arte medianica». «Comunque, al di fuori di ciò che può essere l'eventuale valore di Gocce di Rugiada, non posso esimermi dall'evidenziare alcune considerazioni. Non mi risulta l'esistenza di altra letteratura paranormale ottenuta tramite un dettato medianico a voce diretta. E già per questo il fatto è notevole e degno di ogni considerazione, perché, ripeto, più unico che raro. A mio modesto parere non si può non rilevare che chiunque fosse colui che ci dettò parte di quell'opera inedita, doveva conoscere a fondo la lingua che adoperava e la storia della Valdelsa in cui la novella è ambientata. Questa storia romanzata appartiene a un periodo del medioevo che può essere approssimativamente circoscritto. Dal testo si rileva che una torre della castella di Rocca d'Olivo guarda sulla Semifonte ormai distrutta. La città di Semifonte, costruita dopo il 1100 tra Certaldo e Barberino Val d'Elsa, e ben presto divenuta rivale di Firenze, ebbe il suo apogeo tra il 1180 e il 1202, quando fu espugnata dai fiorentini, che la vollero poi rasa al suolo. Quindi quando la storia ha inizio Semifonte non esisteva più. In uno dei brani della novella si parla anche della visita di Dante Alighieri a San Gimignano in qualità di ambasciatore. Questo fatto è storicamente datato al 1300. Pertanto si possono collocare gli eventi narrati in Gocce di Rugiada a cavallo tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, epoca in cui ancora imperversavano le lotte tra guelfi e ghibellini, fra papato e impero, abbondantemente condite con gli strali delle scomuniche. Ne fanno fede le citate antiche casate rivali di San Gimignano, come i Salvucci, gli Ardinghelli e i Becci, le cui torri e palazzi ancora esistenti ci parlano della loro passata grandezza. Anche per quanto riguarda alcune delle località citate sono rintracciabili notizie storiche e ruderi, ormai fatiscenti. Castelvecchio, ad esempio, era un antico e forte castello a circa cinque chilometri da San Gimignano, che fu prima feudo della Chiesa volterrana e poi divenne il baluardo più sicuro dei sangimignanesi quando questi cominciarono a scuotere il giogo dei vescovi. Agli inizi del secolo XIV (1309) perse la sua importanza con la costruzione di un vicino castello e si avviò lentamente, ma inesorabilmente, verso la fine. E poi, chi di noi conosceva la denominazione esatta delle armi in uso nei secoli XIII e XIV? Come sarebbe stato possibile, ripeto, per noi, ignoranti in materia, costruire, anche inconsapevolmente, Gocce di Rugiada?». «Devo aggiungere che alcuni vocaboli e citazioni contenuti in questa novella hanno particolarmente attirato la mia attenzione, perché evidenziano la preparazione e le conoscenze linguistiche dell'autore, che noi, ripeto, non potevamo avere nella maniera più assoluta. Ad esempio, il personaggio Chiappo, uno degli armigeri dei Branducci, è stato così chiamato non a caso, ma con un significato ben preciso. Infatti ho scoperto in un Vocabolario Universale della Lingua Italiana del 1847 che Chiappo significa Drappello. Gli armigeri di Rocca d'Olivo possono considerarsi un vero e proprio drappello: circa una trentina, ed egli ne è il capo. Non solo, ma per il coraggio e la combattività Chiappo vale molto più di alcuni dei suoi uomini». Va osservato che ci sono molte definizioni del termine chiappo, tra cui anche quella citata da Ravaldini, ma non solo. Chiappo può significare presa, cattura (da cui il verbo acchiappare), oppure laccio, corda, cappio (si vedano le varie voci nel sito www.dizionario.org). «Le difficoltà della dettatura – continua Ravaldini nel suo articolo – nascevano dunque soprattutto dal linguaggio dell'entità, ricco di termini inconsueti, e spesso anche inventati dallo scrittore stesso, con una creatività peraltro in ottima sintonia con l'intenzione comunicativa (come nelle espressioni risate sganasciarie o risate diavolose). Talvolta poi l'entità iniziava a dettare qualche parte che era già stata scritta, e proseguiva finché gli astanti, accorgendosi delle ripetizioni, non lo avvertivano. Dunque la dettatura stessa di Gocce di Rugiada costituisce un enigma nell'enigma, del quale purtroppo non riusciremo mai a venire a capo, a meno che, per qualche straordinario colpo di fortuna, non si potesse identificare l'autore, o ritrovare almeno qualche brano del romanzo, per mettere a confronto l'originale col dettato medianico». Un'indagine linguistica Il testo della novella fu poi sottoposto dallo stesso Ravaldini all'attenzione di un'esperta della lingua italiana, la dottoressa Linda Pagnotta, che si è occupata di letteratura italiana due-trecentesca, collaborando con l'Accademia della Crusca al progetto Concordanze della lingua poetica italiana delle Origini, e con il CNR nella redazione del Tesoro della lingua italiana delle Origini. Dopo aver esaminato il racconto con spirito critico ed obiettivo, la Pagnotta ha inviato a Ravaldini il commento che segue, in data 2 maggio 1995, pubblicato anch'esso nell'articolo sopra citato nel fascicolo 4 del 2000 di Luce e Ombra. «Si può escludere con certezza che si tratti di prosa antica, trecentesca o ancor meno duecentesca: la presenza di un francesismo introdotto in Italia solo nel XVII secolo come giustacuore consente di fissare intorno a quest'epoca il termine post quem per la composizione della novella, che del resto altri caratteri di tipo linguistico e stilistico denunciano come sicuramente molto posteriore ai primi secoli della letteratura. L'autore è comunque un conoscitore della novellistica tre-quattrocentesca e un cultore della lingua toscana antica, cui cerca costantemente di adeguarsi, accentuando tuttavia gli elementi arcaicizzanti molto al di là di quanto consentito dall'uso antico, con un vistoso effetto di accumulazione di locuzioni e frasi idiomatiche che rende la sua ricostruzione piuttosto improbabile. È significativo in questo senso l'abuso di forme verbali perifrastiche, evidentemente sentite come tratto caratterizzante la lingua trecentesca (dove in effetti ricorrono con relativa frequenza); si tratta però spesso di formule circonlocutorie prive di riscontri e attribuibili direttamente all'autore (vedi ad esempio avere in dottrina, farsi in orecchio, avere in debole, dar di chiamo, ecc.); e analogamente, accanto a voci genuinamente arcaiche (orrevole, resìa, spezial, ecc.), se ne trovano altre del tutto fantasiose (vedi in particolare le serie suffissali in -oso: amicoso, scuroso, umidoso, diavoloso, ghibellinoso) o ipertoscaneggianti e foneticamente erronee (puotesse, puotuto, àlie). A questi calchi spesso approssimativi vanno poi aggiunte tutta una serie di voci e locuzioni (nonché alcuni vezzi fonetici come dreto, stiantare o fussino) appartenenti al parlato popolare toscano contemporaneo all'autore (alcune di queste, pure etimologicamente verosimili, come ad esempio l'agg. ràbbio, nella locuzione svolto ràbbio, piega improvvisa, forse da ruere latino, rovesciare, non figurano nei dizionari), che come vedremo potranno esserci d'aiuto per tentare una datazione della novella». «Anche se ci si sposta poi sul piano delle modalità narrative e persino delle coloriture stilistiche, traspaiono dalla novella numerose dissonanze rispetto alla classica tipologia boccacciana o postboccacciana. In particolare saltano all'occhio le numerose metafore di gusto secentista (rubin liquido, astro d'oro, necessitario delitto, ecc.; ma la serie è lunghissima), la frequenza del dialogo diretto, che ricorre in misura assai più limitata nella prosa antica, e soprattutto le descrizioni dei personaggi, di stampo decisamente romantico e alfieriano, dove è enfatizzata quella componente eroica e moralmente sublime di cui il romanticismo ammantò l'immagine del Medioevo. Svariati indizi inducono quindi a situare cronologicamente la novella al primo Ottocento: anzitutto l'ambientazione in un basso Medioevo di maniera, fatto di lotte e scaramucce fra opposte fazioni e ancora immerso un po' anacronisticamente in una realtà di tipo feudale (vedi i castelli, le giostre, ecc.); il fatto poi che in uno dei frammenti sparsi sia nominato Dante dà immediatamente l'idea di un falso ottocentesco: è infatti tipico del romanzo e della novella storica l'inserimento della narrazione in una cornice pseudostorica, dove compaiono i personaggi più carismatici e rappresentativi dell'epoca trattata. Ma è principalmente una scelta di genere letterario e di linguaggio a dichiarare la matrice purista dell'autore, che facilmente potrebbe essersi mosso in quell'ambiente culturalmente reazionario che fra Sette e Ottocento tentava di mantenere, contro le nascenti istanze romantiche (e già illuministe) di libertà linguistica, il primato toscano ed in specie quel culto trecentista, tradizionalmente promosso dall'Accademia della Crusca, che da secoli bloccava lo sviluppo della prosa letteraria in Italia». «In questa prospettiva l'adozione del genere prosastico più specificamente trecentesco, la novella, si sposa con il gusto romantico per il primitivo e per una fantasiosa rivisitazione del Medioevo, mentre la commistione di forme arcaiche e di voci del parlato parrebbe rispondere proprio all'esigenza di dimostrare la sostanziale continuità e vitalità della tradizione linguistica italiana, con un intento di opposizione all'invasione di forestierismi già allora in atto. Saremmo insomma nell'ambiente del padre Cesari, del Puoti, del Fornaciari, tanto per ricordare i nomi dei principali teorizzatori del purismo; riscontri più precisi, vista l'ambientazione provinciale della novella (e l'abbondanza di usi metaforici da cui traspare un'educazione retorica di sapore ancora barocco), potrebbero essere cercati fra gli scrittori e gli eruditi senesi del primo Ottocento. Ai fini della ricerca paranormale quel che più conta è però, mi sembra, il carattere fortemente letterario e costruito della novella, che in alcun modo può ritenersi frutto di una composizione estemporanea (oltre che, come è già stato sottolineato, le numerose e veridiche citazioni di luoghi e di avvenimenti, che presuppongono l'esistenza di un lavoro preparatorio di documentazione alla base del racconto), e soprattutto la sua pertinenza all'atmosfera e alle esigenze culturali espresse da un movimento oggi dimenticato e poco studiato – nella sua espressione letteraria – anche dagli specialisti come il purismo: il che è ancor più difficilmente attribuibile ad un fantomatico falsario». Posso aggiungere che anche la parola copricapo fu introdotta nella lingua italiana solo all'inizio del Novecento, e che altri termini usati dal Boccacci, come ad esempio armàro per armaiolo o armaiuolo, non hanno fatto parte della nostra lingua in nessun periodo. Ovviamente, le questioni in merito al processo creativo che ha portato alla composizione di una prosa così ricca di perifrasi e di termini insoliti o del tutto inventati restano irrisolte, e vanno considerate nel quadro degli enigmi ascrivibili alla psiche umana sui quali deve ancora esser fatta luce. Come si è detto, la dettatura di Gocce di Rugiada si interruppe del tutto quando il medium fu richiamato sotto le armi, all'inizio del 1941, e dopo qualche tempo destinato in Albania, e da lì al fronte greco. Nelle pagine seguenti è riportato il testo completo di tutte le parti dettate, nell'ordine che ci è sembrato più logico, ma che potrebbe non corrispondere al cento per cento alla struttura della trama prevista dall'entità Boccacci.
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